Dentro le ossessioni del canaro
Dogman di Matteo Garrone nella desolazione urbana e sociale di Antonioni e Pasolini
Con Dogman Matteo Garrone torna nei luoghi e nelle tematiche più tipiche del suo cinema dopo la parentesi dichiaratamente fantasy e fiabesca de Il racconto dei racconti (2014). In realtà l’ultima fatica del regista romano si inserisce in un percorso coerente in cui anche l’opera tratta dalle fiabe di Basile si incastra alla perfezione, costituendone anzi una tappa importante: Il racconto dei racconti è stato infatti un punto di arrivo quasi ovvio delle continue tensioni tra iper-realismo e echi metafisici, tra base naturalista e influenze astratte, tra concretezza e allucinazione che hanno caratterizzato il cinema di Garrone fin dagli inizi, in particolare a partire da Estate romana. In Dogman è come se avvenisse in qualche modo la saldatura tra le atmosfere e la poetica tipiche, per esempio, de L’imbalsamatore e di Gomorra e le influenze più evidenti della fiaba e del fantastico esplose ne Il racconto dei racconti.
Man mano che il film avanza l'influsso di Simone su Marcello assume i connotati del plagio, portando il tranquillo protagonista ad un doppio punto di non ritorno
Marcello (Marcello Fonte, che sembra nato per questo ruolo e che ha vinto il premio come miglior attore a Cannes 2018) è una brava persona; gestisce un negozio di toelettatura per cani, ama la figlia così come ama i suoi clienti a quattro zampe. Vive in un desolato sobborgo del litorale probabilmente romano – lo si intuisce esclusivamente dalla dizione dei personaggi, in realtà il film è stato girato nella località campana di Castel Volturno e potrebbe essere ambientato ovunque –, un’estrema frazione urbana brutta, sporca e cattiva dove la vita scorre placida e bloccata, dominata dalle inquietanti vestigia architettoniche e urbanistiche di un’aggressività edilizia disinteressata all’estetica e alla funzionalità. Il quartiere è tiraneggiato da Simone (Edoardo Pesce, bravissimo), un ex pugile dilettante e criminale di piccolo cabotaggio. Simone ha un’enorme influenza sul debole Marcello, sempre più ossessionato del fascino “coatto” e della forza trasmesse dall’amico; man mano che il film avanza questo influsso assume i connotati del plagio, portando il tranquillo protagonista ad un doppio punto di non ritorno, prima con la caduta definitiva e poi con l’estremo, disperato e malato tentativo di riscatto.
Dogman è ispirato ad un efferrato fatto di cronaca nera avvenuto a Roma nel 1989: il cosiddetto delitto del Canaro della Magliana. Garrone, disinteressato alla ricostruzione storica e alla cronaca, utilizza il fattaccio come pretesto, un po’ come accadde ne L’imbalsamatore con l’altrettanto torbida vicenda del nano di Termini, e lo astrae. Lo porta fuori dalla realtà storica calandolo nel presente, per quanto vago e accennato solo da dettagli quasi irrilevanti, e da quella fisica e geografica. Lo ambienta in un’indefinita e rarefatta periferia estrema che ricorda un po’ un quadro di De Chirico, un po’ un villaggio di un western all’italiana e un po’ l’Ostia dell’omonimo capolavoro di Sergio Citti. Un luogo ai limiti della civiltà, allo stesso tempo inquieto e immobile, come sospeso in un’astrazione che la decontestualizzazione temporale e geografica operata dal regista mette in risalto. Un universo parallelo alla storia e al presente che assume connotazioni post-urbane, post-storiche, post-proletarie e quasi post-umane. In questa realtà sfuggente pare inevitabile la simbiosi tra l’ambiente e gli abitanti condannati al conformismo, all’incattivimento, alla sconfitta e all'emarginazione. È, da questo punto di vista – ed è strano che quasi nessuno l’abbia notato –, anche un film perfettamente post-pasoliniano, che da un certo punto di vista coglie gli effetti dell’omologazione, la scomparsa e la sconfitta dei proletariati paventati dall’intellettuale friulano.
Dogman però, ribadiamolo, non è, come si potrebbe pensare leggendo le righe precedenti, il consueto film di denuncia sulle periferie disagiate, così come Gomorra non era il classico film di denuncia della camorra. Affrontare direttamente ed esplicitamente l’attualità e il contesto sociale a Garrone non è mai interessato, il suo approccio è molto più sottile e indiretto e mira a raccontare le reazioni della natura umana alle prese con condizioni in qualche modo estreme. Tematica che risalta proprio grazie alle spinte centrifughe che tradiscono il naturalismo di partenza dandogli connotazioni metafisiche, astratte e allucinate, quasi dichiaratamente irreali. Fondamentale da questo punto di vista è proprio il lavoro di astrazione del paesaggio. Volendo, dopo aver citato Pasolini, potremmo anche sostenere la tesi che in quest’ottica Dogman e in generale il cinema di Garrone siano una continuazione e un aggiornamento dell’astrattismo di Antonioni.
Se la simbiosi tra l’ambiente e gli abitanti condannati al conformismo, all’incattivimento, alla sconfitta e all'emarginazione ricorda Pasolini, per l'astrazione del paesaggio Dogman e in generale il cinema di Garrone sembrano una continuazione e un aggiornamento del cinema di Antonioni
Nel cinema del maestro ferrarese il paesaggio era il riflesso di una condizione interiore di crisi e di smarrimento consapevole ed era in grado – pensiamo in particolare alla prima parte de L’avventura e agli ultimi otto minuti de L’eclisse – di cancellare la presenza dell’umanità ponendosi come unica chiave di lettura della realtà, come simbolo sconsolato dell’impossibilità dell’uomo di capire e comunicare se stesso. In Dogman l’ambiente fisico e geografico è un deus ex machina opprimente e vischioso che invece convive costantemente con l’uomo e che pare agire quasi fisicamente sui personaggi, come in un’inevitabile simbiosi. Una condizione che Garrone dà per scontata dando una lettura torva e post-apocalittica, come se quell’amara consapevolezza (metaforizzata in Antonioni dalla trasfigurazione del paesaggio) si fosse ormai radicata da tempo e in maniera irrimediabile, andando ben oltre l’espressione di un disagio intimo e sentimentale. Nel mai urlato ed estremamente funzionale virtuosismo della regia – pensiamo a come la cinepresa non stia quasi mai ferma, pur muovendosi perlopiù sommessamente e mai in maniera fine a se stessa, o a come Garrone riesca a sintetizzare un intero sentimento nella sequenza della corsa in motocicletta – è decisivo il gioco tra campi medi e lunghi che suggeriscono questa simbiosi e i primi piani in cui il paesaggio è comunque presente e minaccioso. Per questa umanità sconfitta in partenza l’unica maniera per fuggire all’opprimente e determinante contesto fisico e geografico è rifugiarsi nell’illusione che diventa ossessione.
Il racconto dell’ossessione è, del resto, uno dei punti cardinali del cinema di Garrone, l’elemento spesso decisivo nello scatenare lo scarto dal naturalismo di partenza. L’ossessione torbidamente amorosa, l’ossessione per l’altro che diventa espressione di sé, per la magrezza, per i modelli criminali o per la celebrità televisiva sono alcune delle maniere con cui il regista napoletano ha raccontato disperati ed estremi tentativi di fuga interiori che portano alla follia, allo smarrimento di sé e allo scollamento con la realtà. Ossessioni che aprono le porte all’inevitabile sconfitta, preannunciata da un disperato ed estremo tentativo di riscatto, una reazione fuori tempo massimo. La vicenda di Marcello è esemplare anche se letta in quest’ottica. Il finale infatti – non a caso estremamente asciugato rispetto alla realtà dei fatti della vicenda del Canaro della Magliana – più che ricordare la classica vendetta fredda, consapevole e premeditata assomiglia ad un terminale e folle tentativo di rinascita e di impossibile riscatto che, in questo caso, avvengono ai danni di un’altra maschera creata dal contesto (Simone), pure essa evidentemente segnata da un fallimento quasi preannunciato.
L’ossessione amorosa, l’ossessione per l’altro, per la magrezza, per i modelli criminali o per la celebrità televisiva sono alcune delle maniere con cui Garrone ha raccontato disperati ed estremi tentativi di fuga interiori che portano alla follia, allo smarrimento di sé e allo scollamento con la realtà
Dogman racconta una vicenda torbida che Matteo Garrone, mai nel ruolo del giudice, trasforma in una storia di estrema pietà con i contorni da fiaba astratta, che allo shock della centellinata violenza esplicita preferisce creare tensione e suspense descrivendo le interiorità. Una fiaba quasi metafisica e allo stesso tempo estremamente reale, cupa e dura tanto quanto tenera e commovente. Dogman è un film potente e complesso che colpisce da più parti e che non può lasciare inermi, rimanendo e macerando per giorni; come un grido disperato sentito in lontananza o come un brutto sogno che lascia in eredità una sensazione di disagio e inquietudine.
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