Della morte e del potere
Il cinema di Paolo Sorrentino tra il divo Giulio Andreotti e il Silvio Berlusconi di Loro
Paolo Sorrentino è forse uno dei nostri autori più celebri anche all’estero. Lo contraddistinguono uno stile e una poetica ben definiti, tanto da fare dei suoi film opere perfettamente riconoscibili grazie a precise costanti narrative e visive. Passando dalla vena satirica a quella più carnevalesca Sorrentino racconta il mostruoso della società italiana odierna contraddistinta da cinismo, tragedia e commedia delle parti. L’unione fra il post-moderno, che si esprime tramite la citazione, il montaggio discontinuo e la narrazione episodica rende il suo un cinema che non segue la sequenzialità tipica della narrazione.
File rouge delle sue pellicole sono le tematiche del potere e della morte. Le conseguenze dell’amore (2004) è una storia che potremmo definire di naufragio, dove un uomo è segregato in uno spazio asettico, anonimo e chiuso in un involucro di solitudine. Il regista, per la prima volta, inizia a lavorare sugli spazi che aiutano a sintetizzare la vicenda che sta raccontando, spazi in cui aleggia il potere soverchiante della criminalità organizzata. Quest’ultima agisce sul protagonista Titta Di Girolamo e ne desertifica l’esistenza, facendone un uomo che vive in un eterno presente: un recluso dalla vita. Se già con L’uomo in più (2001), il suo primo lungometraggio, si soffermava sul tema della caduta dell’uomo, con Le conseguenze dell’amore Sorrentino racconta, ancora una volta, di un morto che cammina.
L’unione fra il post-moderno, che si esprime tramite la citazione, il montaggio discontinuo e la narrazione episodica porta il cinema di Sorrentino lontano dalla sequenzialità tipica della narrazione
Fin dalla prima inquadratura emerge l’estrema profondità dell'ambiente, asettico e freddo, in quello che, per dirla con Augé, è un non luogo. Lo spettatore percepisce immediatamente il senso del tempo, sul fondo della scena emerge un uomo dominato da un’immobilità quasi spettrale. In questa inquadratura c'è tutto il film, ovvero quell’illusione di movimento che non porta a nulla: la storia è quella di un uomo immobile, che nel momento in cui proverà a lasciare questa sua stasi andrà incontro la morte. L’iperbole sulla morte prosegue anche nella sequenza successiva, contraddistinta da sguardi e dalla voce fuori campo di Titta, conclusa dalla comparsa di un carro funebre che simboleggia, ancora una volta, uno sguardo sulla fine e di come l’istanza visiva del protagonista sia, invero, quella di un morto che cammina. E infatti nel momento in cui prova a riprendere in mano la sua vita e a seguire il suo istinto verso la protagonista femminile si ritrova invece senza via d’uscita, schiacciato dalla malavita. Il ritorno del potere è l’infrangersi di tutto: il potere soverchiante, retto da regole terribili e capace di rendere schiave le persone. La fine del film è anch’essa emblematica: qui il volto di Titta preserva la fissità dove a un’esistenza vissuta da morto si sostituisce ad una morte vissuta da vivo.
Il discorso sul potere raggiunge il suo apice con Il divo (2008), un potere inteso come motore dell’esistenza e come rapporto di forza: per Sorrentino o lo si esercita o lo si subisce. Il film ruota intorno al politico Andreotti, che ha consacrato la sua vita al potere, facendone una figura allo stesso tempo affascinante e mostruosa. Il regista vede in lui l’incarnazione più oscura e allo stesso tempo essenziale del potere, un’immagine estremamente complessa e indefinibile che nasconde un fondo tragico. Sorrentino per raccontare la sua storia non percorre la strada del film d’inchiesta, ma affida a Toni Servillo la creazione di una maschera, cioè di un personaggio assoluto che non deve solo ricordare Andreotti, ma andare oltre Andreotti stesso per farne una rappresentazione mediatica: il divo, appunto. Il processo di Sorrentino crea quindi una verosimiglianza non solo attraverso il trucco, ma tramite l’icona capace di incarnare un modo di concepire il mondo. Non sceglie il realismo, ma la sua astrazione facendone un personaggio inerte, immobile, impenetrabile, immutabile e curiale. Non è forse anche questa un’altra forma di analisi sul potere?
Il divo di Sorrentino è una figura demoniaca, vampiresca, perché la dimensione del potere implica oscurità e tenebre: il divo si muove di notte e soffre di insonnia
Nell’incipit il personaggio è lontano e immerso nel buio, introducendo così anche l’altro tema caro al regista, ovvero quello della morte. Il film non dà giudizi sulla figura di Andreotti, piuttosto la definisce attraverso espedienti come la sequenza allo scrittorio, dove la lampada è usata non per illuminare ma per nasconderne il volto. Lo spegnimento delle luci, poi, comunica la tirchieria del personaggio e diventa simbolo dello stesso Andreotti come uomo abituato a stare nell’ombra. Con questa pellicola Sorrentino delinea una figura demoniaca, vampiresca, ma non in senso strettamente morale. La dimensione del potere implica oscurità e tenebre: il divo si muove di notte e soffre di insonnia come lo stesso Titta di Girolamo, in una rappresentazione fra irreale e caricaturale, ridicolo e mostruoso dove ad imporsi è la sua inafferrabilità.
Capiamo bene come fin dal principio la poetica sorrentiniana contenesse già tutti quegli ingredienti che ritroviamo nel suo ultimo lavoro: Loro 1 e Loro 2. Il centro della storia è Silvio Berlusconi, ma più che l’uomo politico quello che ancora una volta interessa raccontare è piuttosto la figura di potere, avvolta da un senso di morte. I due film, intesi come opera unica, trasmettono una sensazione di impenetrabilità, rendendo il film un manifesto sul mistero del potere ma soprattutto del mondo stesso.
In Loro 2 si ascolta uno scambio tra Ennio e Silvio, interpretati dallo stesso Servillo: «Noi siamo venditori. E il venditore è l’uomo più solo del mondo, perché parla sempre e non ascolta mai». Da questo dialogo cominciano una serie di riflessioni sui sentimenti e le paure, in cui la figura privata e pubblica del politico italiano si mescolano, sovrapponendosi, e quello che ne resta è la solitudine dell’uomo. Un uomo che avverte la sua ascesa, che sul piano filmico viene rappresentata con un alternarsi di scene frizzanti, fra videoclip e ragazze che cantano “meno male che Silvio c’è”, a sequenze decadenti che finiscono per ricordare il profumo “dell’alito di un vecchio”. Se nella prima parte a fare da padrona è la farsa nella seconda è invece la tristezza la vera protagonista.
In Loro la figura privata e pubblica di Silvio Berlusconi si mescolano, sovrapponendosi, e quello che ne resta è la solitudine dell’uomo
Quel che resta, come era accaduto anche ne Il divo, è il personaggio che si rivolge direttamente a noi spettatori in un monologo. Da una parte Andreotti, rivolgendosi alla moglie, inizia una confessione su cosa il potere debba fare, dimostrandosi totalmente libero di dichiararsi per l’uomo indecifrabile che è, senza filtri e senza censure; dall’altra parte Berlusconi, chiamando una donna qualunque presa dall’elenco telefonico e spacciandosi per Augusto Pallotta, finge di essere tornato a vendere appartamenti. I monologhi dei protagonisti nei due film diventano vere e proprie confessioni: Andreotti e Berlusconi sono personaggi liberi di dichiararsi come tali e di parlare con sincerità. Se ne Il divo la dimensione del potere si celava nella figura nascosta di Andreotti qui è piuttosto nel suo opposto, ovvero la stessa fisicità di Berlusconi che diventa vera protagonista, ben evidenziata nella prima parte del film in cui diventa quasi un’ossessione negli altri personaggi. In questo film Sorrentino però va oltre, e non si ferma alla figura del divo, ma si sposta nella dimensione del loro. Questi ultimi possono essere effettivamente loro, ma anche noi stessi intesi come gli altri. Spetta a noi decidere.
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