DECALOGO 8
Non dire falsa testimonianza
Avvolte da fasci di luce discontinui e zone d’ombra alterne, due mani si stringono nel freddo di Varsavia. Passi timidi e lenti e una bambina impaurita che, ignara del suo destino, ha attraversato tutta la città accompagnata da un uomo; il suo volto a tratti disvelato e poi ancora nascosto nel buio, come se in seno a quelle discordanze di luce abitassero i confini che distanziano il vero dal falso.
Zofia è un’anziana docente universitaria di filosofia. Durante una sua lezione, dal tema ‘l’inferno etico’, accoglie tra i sui uditori Elzbieta, professoressa che studia la sorte degli ebrei sopravvissuti alla guerra presso un istituto americano e che ha peraltro tradotto in inglese quasi tutte le pubblicazioni di Zofia, motivo per il quale le due donne si conoscono già da tempo. Il metodo dell’insegnante implica che dallo spunto degli studenti si dipani la discussione volta a sviscerare i temi di ambito morale all’interno di semplici storie, spesso frutto dalla fantasia degli allievi.
In aula una ragazza racconta però una storia che ha, a dire di Zofia, il pregio di essere vera, pur con il difetto di essere accaduta nel passato. Si tratta del dilemma etico di Dorota, protagonista di Decalogo, 2, costretta in bilico tra le sorti incerte del marito in fin di vita e il bambino portato in grembo nel peccato dopo una relazione extraconiugale: se il marito morirà, la donna terrà il bambino e vivrà la sua vita con l’amante; in caso contrario, sarà costretta ad abortire.
La storia è nota ai presenti e tutti sanno che alla fine vivranno entrambi. Sembra dunque ragionevole credere che, nell’inferno vissuto dai protagonisti, ciò che conta, in ultima analisi e oltre ogni cosa, sia la vita del bambino. Questa conclusione, fuori dalla dialettica del dubbio, è l’incipit per un nuovo racconto, dalle vesti simili al precedente quanto a presunti pregi e difetti, proprio perché inerente a qualcosa di vero, accaduto in un passato lontano, il passato taciuto e portato dentro negli anni da Elzbieta, che finalmente trova in quell’aula il giusto canale di sfogo.
È l’inverno 1943, febbraio. Una bambina ebrea di sei anni, dopo essere rimasta a lungo nascosta nella cantina di una famiglia polacca, è costretta ad abbandonare il rifugio. La nuova sistemazione è ben presto trovata, ma le persone che accettano di ospitarla richiedono un regolare certificato di battesimo. Due giovani cattolici, marito e moglie, acconsentono così a far da padrini, ma all’ultimo declinano la promessa fatta, convinti di non poter mentire di fronte a Dio (in cui credono), quel «Dio che chiede loro di essere misericordiosi ma che non permette di dare falsa testimonianza».
La piccola ha attraversato la città nel freddo tenendo per mano il suo accompagnatore, dopo un intero pomeriggio in viaggio per raggiungere la casa dei coniugi. Non c'è il tempo per il tè. Il marito, agitato, gira attorno al tavolo; è quasi l'ora del coprifuoco, il prete attende. «Finisci il tuo tè», dice la signora; la bambina ne beve ancora un po' ma allo sguardo del suo accompagnatore mette giù la tazza.
Il racconto di Elzbieta è una confessione che permette alle due donne di ri-conoscersi dopo anni di intimo silenzio. Nell’aula sembra chiaro che non vi siano motivi che possano giustificare una tale decisione, nemmeno la paura. Zofia è così smascherata e lascia allo sguardo il terrore del senso di colpa velato nel tempo, ora concesso a un uditorio che giudica ma che non sa.
È tardi, il corridoio dell’università è vuoto e l’anziana professoressa lo percorre nell’ombra a passi timidi e lenti, dirigendosi verso Elzbieta: l’eco dei tacchi sul pavimento traccia il sentiero che riconduce entrambe le donne a quel passato doloroso. La mano invisibile di Kieślowski resta qui in disparte, come una carezza al servizio del loro incontro, ciascuna a legar la propria vita a quella dell’altra, nell’intento non del tutto consapevole di voler finalmente conoscere d’ora in avanti il contenuto indicibile di ciò che continua a unirle visceralmente. Il quadro filmico rimarrà quindi il luogo del loro reciproco cercarsi, avvolte nella luce e poi ancora nel buio.
Zofia porta Elzbieta nella casa in cui si concretizzò quel triste incontro numerosi anni addietro. Molto è cambiato, l’atmosfera lugubre e grottesca, un ammasso di famiglie disordinate; le due si perdono e poi si ritrovano.
«Alla gente non piace rivedere i testimoni della propria umiliazione, anche se si tratta soltanto di luoghi», dice Zofia; «Perché certi possono salvare e altri soltanto essere salvati, lei lo sa?» – «Non lo so» – «Andiamo». La macchina va via, diretta a casa di Zofia.
Un quadro storto rimesso a posto metodicamente – nella dimensione di una ritualità sacra volta rimettere ogni cosa nel giusto ordine, che pur si ostina a tornar paradossalmente dis-ordinato – dei fiori portati ogni giorno in memoria del marito morto da tanto tempo, una preghiera e la nostalgia per un figlio lontano. Non c’è rancore, ma complicità. Parlano serenamente, traspare una silente ammirazione.
Zofia considera i motivi della sua scelta sofferta prosaici e, di certo, al contrario, non le ripercussioni di quella stessa scelta sulla vita di entrambe. I reali motivi, però, che la spinsero a declinare la promessa fatta – confessa la donna – furono indotti da presunte voci sulla famiglia che avrebbe dovuto ospitare la piccola Elzbieta, per le quali si paventava la possibilità che questi fossero delle spie della Gestapo, possibilità poi rivelatasi falsa.
Zofia poggia le mani sulle spalle della ragazza; questa china il capo: «Ho rifiutato di aiutarti mandandoti a una morte così certa; e sapevo cosa stavo facendo». Le due mani si stringono forte. «Grazie», dice Elzbieta.
Kieślowski costruisce un enorme ventaglio etico dalle molteplici sfaccettature, ognuna delle quali percorre il rischio della ‘falsa testimonianza’, variegata anch’essa nelle forme, così mostrandoci, per immaginazione, uomini liberi arrampicarvisi, arrancando a fatica sulle scuciture della stoffa piuttosto che su quelle dei ricami.
«Il bene […] esiste in ognuno di noi. Le situazioni ci stimolano al bene o al male. In me quella sera non fu il bene ad essere stimolato» – «Ma chi lo stabilisce questo?» – «Colui che è in ognuno di noi […] L'essere umano è libero, libero di scegliere e se lo vuole può anche lasciarsi Dio alle spalle».
Elzbieta è desiderosa di conoscere l’uomo che si era offerto di salvarle la vita e va a trovarlo nel suo piccolo negozio di sartoria. L’anziano signore si rifiuta di parlare della guerra. Le offre una giacca, un cappotto, dei capi tra cui scegliere: vuole persino cucirle un soprabito. Lei scorge delle riviste poco aggiornate e, intimamente riconoscente, si offre con tenerezza di spedirgliene di più nuove. «Veramente è deciso a non parlare con me?» – «Veramente». Poi esce via. Zofia l’aspetta.
Il sarto, muovendosi a passi timidi e impauriti, spia entrambe in silenzio: il volto avvolto tra luce e ombra, mentre le due restano fuori incorniciate come in un quadro che vive, pur prigioniere tra le sbarre della finestra della piccola bottega. E una tendina bianca senza ricamo a ri-cucir nel presente le vesti del vero che si lega a un passato in cui uomini come altri, pur nell'irreversibile errore morale, hanno scelto liberamente.
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