DECALOGO 3

Ricordati di santificare le feste

C’è un piccolo abete, portato in mano per le strade innevate da un ubriacone, che barcollando canta parole stridenti e confuse: un povero alberello di Natale, bistrattato e svuotato di colori e simboli festivi, va in giro sotto l’eco stonata di un canto natalizio, ormai spoglio del suo significato.
Poi, una tavola imbandita e un albero con le luci colorate. Un padre (Janusz) entra in casa con indosso le vesti di goffo Babbo Natale, portando i doni ai propri figli e alla complice moglie, mentre un condomino (un altro ‘padre’), appena uscito nel freddo della neve, li osserva, facendosi portavoce di una realtà altrimenti anonima, accennata poco prima dall’immagine dell’ubriaco col suo alberello, e rigettata dalla serenità del focolare domestico in festa: lasciata ai margini, fuori della finestra invalicabile.

Nella notte in cui si celebra e festeggia la nascita del Figlio di Dio, si staglia, come primo riconoscibile, proprio il volto di un padre, solo, che del figlio è stato brutalmente privato; ed è il volto di quel tale Krzysztof che in Decalogo 1 perdeva tragicamente il suo piccolo Pawel, inghiottito tra le crepe del laghetto ghiacciato.
Così, prima ancora che una trama si sviluppi e che qualcosa accada, Kieślowski costringe il suo spettatore, sensibile e attento, a porsi una domanda, marginale rispetto alla storia, ma legittima nei confronti di un personaggio per cui è già maturata un’affezione: come trascorrerà Krzysztof la notte di Natale?
Tale domanda, dal respiro flebile, scomparirà ben presto nel silenzio, conducendo pian piano nelle viscere di quella marginalità, nel cuore di quella dimensione ‘altra’ di cui Krzysztof è solo un momentaneo portavoce e rispetto alla quale i protagonisti del racconto saranno soltanto dei traghettatori.

Janusz è alla Messa di Mezzanotte con la famiglia, quando, nella chiesa gremita, incrocia lo sguardo sfuggente dell’ex amante Ewa. Sembrerebbe, forse lo è, un incontro fortuito, se non fosse per la susseguente irruzione della donna che, piombata sulla soglia innevata della casa dell’uomo, gli chiede disperatamente aiuto, costringendolo a lasciare la moglie e i figli (con la scusa del furto del proprio taxi) per cercare il marito Edward, improvvisamente scomparso. Inizia così un viaggio alla ricerca di un volto assente e senza contorni, di un fuoricampo incombente e opaco, che rappresenta una mancanza il cui riempimento significherebbe probabilmente per la donna la ricostituzione del nucleo familiare perduto. Ewa cerca di ricomporlo con disperata ossessione, o meglio, cerca di ricomporne uno - qualsiasi esso sia - rifuggendo l’insensatezza di una notte come quella, trascorsa in solitudine, com’è stata e sarà quella della zia in ospizio, incontrata poco prima della messa.

I due ex amanti intraprendono la ricerca, passando per luoghi solitari e disumani, dimenticati da Dio, e imbattendosi in uomini senza volto, né nome: poveri sfigurati senza gambe, corpi nudi di ubriaconi sbeffeggiati e innaffiati come piante. Nella visione di quell’orrore, si palesa a Janusz ed Ewa la possibilità di una nuova riconfigurazione del festeggiare ‘una notte come quella’, che li avvicina assurdamente, grazie anche all’ausilio benevolo delle alterne reminiscenze di un amore andato in fumo e rimesso a galla tra malinconia e vecchi rancori. Il piano della menzogna è chiaro fin da subito: la donna sta mentendo sulla scomparsa del marito e mente, negando l’evidenza, persino sul fatto di essere stata alla Messa di Mezzanotte; l’uomo, diffidente, sospetta, ma un po’ per convinzione, un po’ per buona tolleranza, la asseconda nella sua disperazione, concedendole il proprio sostegno. Ewa si serve della bugia per ri-costruire i segni di quella famiglia che non c’è, seppur ai semplici occhi di qualcun altro: la giacca del marito appesa, la coppia di spazzolini ricomposta in bagno assieme al vicino rasoio, purtroppo immacolato. Poi, nient’altro.
Ewa: «Hai rischiato di distruggere la macchina: e anche noi. Proviamo ancora»? – Janusz: «Vuoi? Mettiti la cintura»: e il taxi sfreccia inspiegabilmente contro un tram in corsa, sfiorando l’impatto.

Il film è, tra i dieci di Decalogo, il meno intricato e denso, perché paradossalmente denso di solo nulla. La donna, che apparentemente sembra il demiurgo di tutto e che usa l’uomo come pedina del suo gioco, vi rimane invischiata ed è solo il pretesto di un lucido racconto. Resta il povero tassista, strappato alla tranquillità quotidiana, per gioco di una donna impaurita e sola, che sveste i panni feriali di Babbo Natale felice per prestare il suo consueto servizio pubblico, portando in giro per le strade infelici e solitarie lo spettatore. E in quel tassì, ‘schiantato’ più volte dentro quella dimensione atroce e disumana, in qualche modo, è (ri)composto un qualcosa di sgangherato, ma di ‘familiare’, visceralmente presente nell’animo dell’uomo. I due traghettatori condividono, così, non solo la complicità della menzogna, passata e presente, ma la ben più recondita e infelice solitudine di cui è partecipe anche lo spettatore.

La ricerca ha finalmente termine alla stazione. Nella guardiola della sorveglianza ci sono solo dei monitor, un alberello con le luci colorate e una sedia vuota. La sorvegliante di turno gioca altrove con uno skateboard per tenersi sveglia, incarnando, in tutta la sua negligenza, il severo rimando, perlopiù respirato lungo tutto il film, a una totale assenza dai ‘posti di controllo’ inerentemente alla sfera politica, piuttosto che a quella divina; o ancora più maliziosamente e con pungente ironia: che qualcuno, da quelle parti, stia per caso giocando?
Ewa svela a Janusz che Edward, l’ormai ex marito, ha una nuova famiglia: «Ho voluto giocare. Non potevo passare una notte come questa da sola».
L’orologio della stazione segna le 7.03. È la mattina di Natale: a casa, la moglie di Janusz dorme sul divano, distesa ad aspettare.


Parte della serie Le dieci parole di Kieślowski

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