DECALOGO 2

Non nominare il nome di Dio invano

Forse perché la complessità del tutto spesso ci disarma, disvelando ogniqualvolta il nostro essere nel pieno dei suoi limiti e delle sue lacune, accade che alcuni tasselli restino sprovvisti di una collocazione chiara dinnanzi alle nostre capacità conoscitive. Come una lepre, caduta dall’alto (forse da uno dei balconi) e trovata priva di vita dal portiere del condominio: avvolta nella terra e poi lasciata nel mistero, senza padroni, né custodi della propria storia e della propria identità.
Accade così nella pellicola kieślowskiana, come nella vita di noi tutti. La morte apre Decalogo 2 e sembra costituirne il plot narrativo principale in quello che, al contrario, è, tra i dieci, il film forse più intriso di vita in senso stretto. Ma addentrarsi nelle viscere di un simil concetto obbliga necessariamente a porsi al confine con la morte o, meglio ancora, nel solco infinitesimo che separa le due.
Dorota, musicista quarantenne schiva e solitaria, ha il marito (Andrzej) gravemente ammalato. Si rivolge al vecchio primario del reparto d’Oncologia in cui l’uomo è ricoverato per conoscerne le sorti. All’anziano signore, peraltro condomino del complesso in cui la coppia vive, la donna, non ancora madre, confida di essere rimasta incinta di un altro uomo. Dopo una prima fase di scontrosità reciproca, s’innesca tra i due un legame atipico, basato sull’intimità del segreto di Dorota e sul dilemma etico che ella porta in grembo: se il marito morirà, terrà il bambino e vivrà la sua vita con l’amante; in caso contrario, sarà costretta ad abortire.

La donna ripone nel medico la fiducia di chi si affida alla scienza impotente e ne subisce gli effetti come succube di un determinismo senza via d’uscita. Così facendo, sembra quasi voler prosciogliere il proprio agire morale da ogni responsabilità diretta, chiedendo, al contempo, una sorta d’assoluzione. Dorota pretende risposte perentorie e risolutive, conferendo al medico, restio a una tale incombenza, l’onnipotenza di chi sa e prevede ogni cosa perché ha in pugno la verità e le sorti delle genti. Prevedere per far cosa? Per possedere, per aver controllo e predominio su ciò che resta, nostro malgrado, fuori del controllo dell’umano arbitrio: sì libero, ma non totalizzante.
Libera è Dorota, che può ancora scegliere; libero è il primario, che può mentire e plasmare il corso degli eventi, come farà in ultima istanza, per salvare la vita del bambino, adempiendo parzialmente alle alte facoltà d’onnipotenza, o quantomeno d’intercessione, attribuitegli e pretese dalla donna («E allora oggi chieda al suo Dio che conceda l’assoluzione»). Egualmente schiavi però, l’una di un futuro incerto e non programmabile; l’altro, di un passato doloroso e incombente che torna a galla durante i racconti ricorrenti (lasciati sempre in sospeso nell’ora del tè) alla Sig.ra Basia, domestica silente al cui ‘non-sapere’ il medico affida le cure delle ferite profonde del proprio animo.

Kieślowski, regista che forse più di ogni altro fa dell’analogia il dettaglio perforante della sua poetica, sceglie di disseminarne moltissime nella storia, tutte volte a esprimere un afflato comune di cose-del-mondo (uomini inclusi) che condividono una sorta di solidarietà reciproca: sia il medico che Dorota fanno bollire l’acqua per lavarsi, e chissà quanti nel vasto condominio fanno alla stessa maniera. Non ci sono solo persone però, ma oggetti ed esseri viventi altri, materia che partecipa di un tutto complesso in cui si vive, a volte patendo sofferenze simili : il canarino, la vasca coi pesci e il cactus ammalato del primario; i portafotografie contenenti le vecchie foto della moglie e dei bimbi (non più in vita), spolverati accuratamente dalla Sig.ra Basia; il fusto della pianta sul davanzale della finestra di Dorota, piegato con violenza da quest’ultima e reso spoglio in un momento di rabbia, che si risolleva da solo; le gocce d’acqua grondanti dal soffitto crepato di una camera d’ospedale durante le allucinazioni di Andrzej. Emerge, così, un comune viver sospesi, tra l’annegare - invischiati nel liquido denso e rossastro di uno sciroppo di fragole – e il (soprav)vivere – della vespa ad esempio, che riesce a trovare una via d’uscita lungo il manico del cucchiaio e poi sul bordo appiccicoso del barattolo di vetro in cui esso riposa. E mentre ogni essere cerca il proprio ordine e la giusta ‘collocazione’, soffia controvento il Caso (forse la Provvidenza?), che rende imprevedibile e sorprendente il reale, manifestando la fallibilità delle scienze e dell’uomo: la vespa, ormai spacciata, ce la fa, oltre ogni previsione, così come Andrzej: «Sentivo il mondo sgretolarsi intorno a me» – rivolgendosi al vecchio primario – «Tutto imbruttiva, era sgradevole; come se mi si volesse aiutare a non avere rimpianti. E ora posso toccare il tavolo. E oltre tutto questo, lo sa? Avremo presto un bambino. Ma lei lo sa cosa vuol dire avere un bambino?».

Proprio lì, nell’a-moralità assoluta del Caso, che agisce senza deliberazione alcuna e pervade l’universo delle cose, mischiandosi profanamente al divino, vive e si nutre il gesto morale dell’uomo. Quest’ultimo, sì debole e insicuro, ma pur sempre in una posizione privilegiata rispetto alle altre ‘cose-del-mondo’, ha cura a suo modo di sé e di ciò che lo circonda. E i tasselli, almeno per lui privi di collocazione, restano altrove, dispersi. E a volte dimenticati.


Parte della serie Le dieci parole di Kieślowski

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