DECALOGO 10
Non desiderare la roba d’altri
È come se, venuta a mancare dal mondo in cui persone e cose convivono diversamente fra loro, la vita di chi non c’è più perseguisse la propria missione, seppur in assenza di sé, nel ricordo degli altri e tra le opere lasciate alle genti ancora vive. Accade così che quelle stesse cose non siano mai mera materia inanimata che giace silente ad abbellir disattenta mentre gli uomini affannosamente si scontrano e osteggiano per possederla, vittime dell’inutilità del loro agire. Ancor più preziose di come appare, esse spesso si trovano a delineare i contorni di vite intere, vissute nell’amore avido e incomprensibilmente intenso, a scapito di chi ne subisce inconsapevole il peccato.
«Come succede che un uomo può avere tanta voglia di possedere qualcosa? Tu dovresti saperlo, a te piacciono le cose». – «Io mi servo delle cose. Mi piace la comodità».
Alla morte di un padre, due fratelli si rincontrano dopo un paio d’anni d’indifferenza. All’ombra di un genitore di cui sanno ben poco e che hanno avuto modo di conoscere a mala pena, portando dietro il peso grave della forte mancanza affettiva, ne scoprono un tesoro inestimabile, lasciato loro in eredità.
Nella contraddizione di un’abitazione modesta, dotata purtuttavia di allarmi e dispositivi di sicurezza, in una dimensione di dichiarata povertà, tra debiti, ruggine e lucchetti antiscasso, vive la prestigiosa collezione di francobolli dell’uomo. Storditi e disorientati, i due si muovono in sordina, nella ricerca poco chiara a entrambi circa il significato profondo che possa aver portato il padre a dedicare un’intera vita dietro una passione così morbosa. Di fianco, equidistante a una simile morbosità, si muove allora, di conseguenza e con altrettanto morboso desiderio, la volontà di entrambi di sviscerare il significato intimo di quella mancanza dolorosa causata dall’assenza di un genitore disattento, così recuperando, al contempo, il rapporto con il proprio fratello dimenticato.
In questo condiviso stato d’animo, lo sguardo intimidatorio di volti esterni e maliziosi – avidi interessati alla collezione, che curiosano con malafede nella convinzione che la morte dell’uomo possa rivelarsi come il pretesto per estorcere loro con l’inganno e senza troppi intoppi l’intero bottino ereditato inaspettatamente – diventa pericolo da cui barricarsi fino allo stremo, in nome della neo-scoperta passione paterna, che a tutti i costi via via vorranno custodire e difendere, forse per recuperare inconsciamente il rapporto con quel padre mai avuto.
A chiusura dei dieci film brevi sui comandamenti, Kieślowski sembra quasi scorporare volutamente l’ultimo dalle connotazioni a grandi linee comuni di Decalogo, quasi a volerne fare un oggetto isolato, scarno, poco appetibile e perciò, per contrasto alla materia trattata, scarsamente desiderabile. Il regista polacco smorza così i toni, tratteggiandone le sfumature con un’ironia spesso al limite del grottesco, pur non inficiando, oltre le più superficiali apparenze, sui contenuti e sullo spessore narrativo dei personaggi qui messi in scena.
Artur e Jerzy, messa finalmente a tacere in disparte la tentazione di una possibile vendita milionaria dell’intero patrimonio, sedimentano pian piano dentro di loro la paura laddove già da tempo esistono sofferenze e patimenti che per ultimo sfoceranno nell’infantile difesa del fortino paterno di fronte a una precisa assunzione di responsabilità. I due protagonisti dormono in casa del padre, comprano un enorme cane nero, cambiano la serratura e fanno ‘scrupolosa’ guardia.
Di pari passo, di fianco a comportamenti buffi e imprevisti alla lunga risolti, scrutano con dovizia, timore e meraviglia la collezione, continuando con devota ossessione la ricerca finalizzata al completamento delle serie di francobolli mancanti. La ricerca del prestigioso mercurio rosa austriaco porterà addirittura Jerzy a donare un rene per la figlia di un commerciante – complice e truffatore – gravemente ammalata, come merce di scambio. Completare la collezione diventa così un comune desiderio di naturale e ingenua purezza, come se in essa fosse proiettato il ben più recondito desiderio d’amore mai avuto, causa di ogni loro insoddisfazione e di tutti i loro insuccessi.
«Artur, ho la sensazione che i miei problemi non esistano più. Niente più problemi, capisci? […] Ci si dimentica, è infantile». – «È piacevole […] E se davvero tutto il resto non esistesse. Basta volerlo e per incanto non c’è».
Tra le scaffalature, sotto la polvere del passato, incustoditi, oltre ai francobolli, giacciono anche gli stralci di giornale con le foto di Artur, cantante di una band rock. Il padre, pur nel silenzio, teneva d’occhio da lontano i successi del figlio, aggrappato alla vacuità di fogli di carta persi tra le cose sugli scaffali. L’acquario vuoto, i pesci oramai morti.
Durante l’intervento in ospedale di Artur dei ladri entrano in casa e rubano l’intera collezione di francobolli. Un guanto nero accarezza il grosso cane nero che si dimostra tutt’altro che impavido e guardingo.
Disperati, vittime di un complotto di cui da lì a poco tireranno ben presto le fila, i due fratelli iniziano a sospettare l’uno dell’altro confessando vigliaccamente i loro dubbi alla polizia; risucchiati anche loro dal fascino perverso degli oggetti, che suadenti li hanno ammaliati confondendoli, ma che al contempo hanno silentemente concesso loro di comprendere e trovare con serena rassegnazione il velato significato soggiacente alle lacune affettive portate dentro negli anni, probabilmente con represso rancore.
Alla morte di un padre, ereditato forse il senso profondo di una vocazione, più che un inestimabile patrimonio poi disgraziatamente derubato, oltre ogni accadimento dalle striature morbose e ogni attaccamento viscerale alle ‘cose del mondo’, restano due fratelli che, come ad altri può esser già similmente capitato, ora aprono al varco che può ricondurli a ricucir un rapporto sbiadito nel tempo. Fronte contro fronte, lo sguardo chino, sorridenti pur nella sciagura, come due infanti che con leggerezza giocano a desiderar ardentemente altri destini.
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