David Lynch: il regista che dipinge il cinema

L'influenza della pittura nell'immaginario del regista americano tra Cézanne, Bacon e Magritte

David Lynch è forse uno dei registi più complessi, ma allo stesso tempo più geniali del cinema contemporaneo. Autore introspettivo e intimista porta nei suoi film una poetica cinematografica distante dalla maggior parte di coloro che si avvicinano alla settima arte. Per il regista del Montana il cinema è piuttosto un prolungamento dei propri dipinti e del proprio flusso di pensieri. David Lynch, infatti, nasce prima come pittore e solo in un secondo momento prende in mano la macchina da presa. Lynch in realtà è un artista a tutto tondo, basti pensare che è anche sceneggiatore, attore, poeta, scrittore, compositore e scenografo. Si fa guidare dal suo sentire giungendo a una soluzione senza cercarla, perché già insita in lui; questa poietica si riflette anche nel suo modo di fare cinema. Il regista non è guidato da un processo razionale e fin dalla sua prima opera Eraserhead (1977) parla piuttosto di un procedimento che lo porta a sentire il film, e non a pensarlo.  

La componente istintuale è determinante nell’operato lynchiano, laddove il “pensare” è ritenuta una componente ostacolante per la creazione artistica. Queste premesse lo legano a ciò che il pittore Paul Cézanne, maestro spirituale di David Lynch, affermava: «Se penso perdo… ma è anche vero che una buona mente organizzatrice è il miglior aiuto della sensazione». Attraverso i suoi film Lynch cerca di tradurre sensazioni che appartengono all’inconscio e già a esso destinate; sensazioni che non possono essere dunque ostacolate da un pensiero razionale. Ecco allora che compare il ruolo della pittura come elemento di analisi fondamentale per il suo operato, come sottolinea Marco Martano nel suo David Lynch - Dipingere il cinema e come confessa lo stesso Lynch nel libro In acque profonde: «i miei film sono come dei quadri filmati: ritratti in movimento imprigionati su celluloide. Tutto è stratificato attraverso il suono per creare atmosfere uniche. Sarebbe meraviglioso se Monna Lisa aprisse la bocca, ci fosse una brezza e lei si voltasse sorridendo».
 

I miei film sono come dei quadri filmati: ritratti in movimento imprigionati su celluloide


È nella pittura di Paul Cézanne che Lynch troverà una delle prime influenze visive; in particolare la cromaticità e la materialità dell’artista francese saranno impressionate nel suo cinema. Per ottenere questi effetti il regista procederà con un’accentuata saturazione del colore, pensiamo ad esempio a Velluto Blu (1986), Strade Perdute (1997) e Mulholland Drive (2001). Lynch, inoltre, si adopra nella scelta di angoli di luce che determinino una forte disarmonia cromatica sui volti dei personaggi dove una parte di essi sarà lasciata totalmente in ombra. Nelle opere del pittore francese si nota un evidente scambio fra spazio emozionale e spazio illusionistico; nel regista questo switch è ben visibile in Twin Peaks (1990) dove, con il ritrovamento del cadavere di Laura Palmer, comincerà una sfilata del fantastico fatta di nani, giganti, angeli custodi ed esseri dell’altrove. Il modo in cui Lynch rappresenta il suo universo è difatti lontano dal reale: Harry, il protagonista di Eraserhead, è collocato in uno spazio straniante e apocalittico in cui l’ambiguità vige sovrana non consentendo la distinzione tra reale e onirico. Le immagini delle mente si mescolano a una realtà già di per sé volutamente distorta, ed è proprio lo stare al confine che connota l’essenza del cinema di David Lynch.  

L’allontanarsi dalla realtà per instillare nella mente dello spettatore nuove sensazioni, introduce l’importanza della figura. Questo elemento, già evidenziato da Francis Bacon come unico scopo creativo, troverà terreno fertile nel discorso lynchiano. La figura in pittura è ciò che non appare istantaneamente riconoscibile permettendo di congiungere l’immediata accessibilità con la chiarezza del figurale. È un elemento di confine fra corporeità nel reale, ma è un reale che va oltre il suo stesso riconoscimento. L’influenza di Bacon è rintracciabile sia nei soggetti di cruda violenza, sia nella componente della mobilità tensiva da loro restituita. È naturale perciò che il cinema di Lynch si faccia man mano sempre più scuro e quindi oscuro. Il nero e tutte le sue sfumature divengono elementi fondamentali che sovraccaricano la componente onirica tramutandosi così in una via per liberare la mente nella quale paure e desideri emergono. Lynch traduce l’idea baconiana nella quale il quadro è dominato dal sentire verso una vera ossessione per il nero. È proprio nell’oscuro e nel non visibile che si costringe chi guarda, a fare appello ai suoi sensi per penetrare il buio. Il penetrare il buio, l’oscurità e il non visibile costringe quindi chi guarda a fare appello ai suoi sensi per penetrarlo.

La filmografia lynchiana si affastella di corpi o, per meglio dire, di frammenti di questi: occhi, bocche, denti e orecchie, non tanto per creare disgusto ma piuttosto perplessità nello spettatore. Si pensi alla sequenza della rapina in Cuore Selvaggio (1990), in cui uno dei due uomini feriti cerca invano la sua mano mozzata per farsela riattaccare chirurgicamente e poco dopo viene inquadrato un cane con l’arto in bocca determinando, nello spettatore, un effetto straniante – non sappiamo se ridere o prendere seriamente ciò che vediamo sullo schermo. Frammentare il tutto in elementi è ciò che realmente interessa all’autore, per cui le singole parti nascoste e i dettagli invisibili diventano necessari. Il frammento per Lynch è fattore molto più inquietante del tutto: il tutto ha una sua logica, una sua forma, mentre un elemento fuori dal contesto è misterioso, non decifrabile e permette di far assumere alla parte una dimensione “altra”, diversa da quella che avrebbe naturalmente. L’operazione chirurgica dello scomporre è una pratica nella pittura di René Magritte, in particolare in L’Évidence éternelle: cinque quadri rappresentano ognuno una parte del corpo nudo di una donna, in cui nessuno di loro è esaustivo di tutti i significati che ha l’insieme.
 

Frammentare il tutto in elementi è ciò che realmente interessa all’autore, per cui le singole parti nascoste e i dettagli invisibili diventano necessari


Qualunque sia il pittore dal quale David Lynch prenda ispirazione la costante è sicuramente il perturbante: un elemento rimosso ma che ci era da sempre familiare. Nei film del regista si trasforma nella componente del mistero di cui i protagonisti cercano una possibile soluzione: lo scopo non è comprenderne il perché, ma piuttosto cosa sia e dove nasca, il desiderio è vedere cosa si trova in quella metà che rimane nell’ombra. L’enigma lynchiano non si riversa in una detection che ricompone i tasselli di un puzzle, ma viene amplificata al massimo fino a sfociare in nuovi enigmi; quello che ne deriva è un intreccio ancor più ingarbugliato dimostrando quanto ogni soluzione risulti provvisoria e incompleta. Come lo stesso Lynch afferma: «per me il mistero è una calamita. Se ci trovassimo in una stanza, con la porta aperta e con le scale che scendono, e si spegnesse di colpo la luce, si avrebbe la forte tentazione di precipitarsi giù da quelle scale». 


Commenta