Da vedove a donne

Neri e bianchi, ricchi e poveri, uomini e donne. I conflitti di Widows di Steve McQueen

Fame. Sesso. Schiavitù. È questo il triumvirato che governa il cinema, libero e senza filtri, disarmante e disturbante, violento e poetico di Steve McQueen, uno dei registi più interessanti dei nostri giorni, capace di raccontare le pieghe più profonde dell’animo umano concentrandosi sulla sua espressione apparentemente più lontana, il corpo. Steve McQueen ha orchestrato un canto del e sul corpo, in prigione, in perenne bramosia, in catene. Che sia il Bobby Sands soldato dell’IRA, detenuto nel carcere nordirlandese di Maze, protagonista di Hunger o il sex addicted Brandon di Shame o il Solomon Northup, musicista, rapito e privato della libertà nel profondo Sud, di 12 anni schiavo, al centro c’è sempre la carne: l’uomo di McQueen, in ogni sua declinazione, è una rappresentazione della solitudine disperata e dolorosa dell’uomo moderno, una narrazione che si costruisce sul rapporto tra potere e libertà. Con 12 anni schiavo si è concluso un percorso incentrato sul corpo e Steve McQueen decide di percorrere una strada completamente nuova – raccontando un gruppo di donne, senza il suo attore feticcio Michael Fassbender, protagonista delle prime due opere e presente anche nella terza – che sembra lontanissima dalla sua arte. Si cimenta così nel film di genere “del colpo grosso”, in un heist movie. E cosa può diventare un heist movie nelle mani di un autore violento e lirico entrato negli anfratti di una cella, nell’ossessione di un sessuomane, nelle ore di lavoro di uno schiavo?
 

Cosa può diventare un heist movie nelle mani di un autore violento e lirico entrato negli anfratti di una cella, nell’ossessione di un sessuomane, nelle ore di lavoro di uno schiavo?


Questa è la prova a cui si sottopone il cineasta con Widows – Eredità criminale, l’ultima sua opera, ideata insieme alla scrittrice Gillian Flynn (L’amore bugiardo - Gone Girl), basandosi sull’omonima serie televisiva degli anni ottanta creata da Lynda La Plante. Widows parte da un colpo fallito, quello di Harry Rawlings (Liam Neeson) e della sua banda di criminali che perdono la vita durante una rapina ai danni di Jamal Manning, boss locale candidato a rappresentante del 18esimo distretto di Chicago contro Jack Mulligan (Colin Farrell). A prendere le redini della situazione è Veronica Rawlings (Viola Davis) che non soccombe sotto la pesante cappa di dolore, causata dalla morte del coniuge, ma dopo le continue richieste di risarcimento da parte del boss si arma e rimpiazza il marito assieme alle altre mogli della squadra, Linda (Michelle Rodriguez) e Alice (Elizabeth Debicki), e ad un membro aggiunto, Belle (Cynthia Erivo).
È una storia questa che sembra distante anni luce dagli strazianti scampoli di vita dei primi tre lungometraggi di McQueen, e un intreccio quasi banale guardando alla complessità delle sue opere precedenti. C’è qualcosa però che lega i tre uomini e le quattro protagoniste di Widows, sia nel modus narrandi che nelle tematiche.

Il cineasta, fin dal primo lungometraggio è in grado, con poche sequenze, di mostrare il tema centrale delle sue opere. In Widows c’è il montaggio alternato dell’incontro amoroso tra Veronica e Harry e del colpo: nel talamo nuziale, è avvolto da lenzuola candide il corpo nero di Veronica, messa all’angolo (dello schermo) dall’amore del marito che le stringe il volto tra le mani e la sovrasta con un tenero ruggito animalesco; nel furgone si consuma il dramma di un gruppo di uomini che tentano il tutto per tutto pur di sopravvivere e di portare a compimento il loro piano. Sembra un collegamento strano quello tra l’amore e la rapina, ma non lo è poi così tanto, ne si comprende ancor di più il senso nei minuti successivi, quando McQueen usa il montaggio alternato per narrare da una parte la condizione di Linda e Alice, entrambe inutili protesi della vita dei mariti, dall’altra la conclusione del colpo, una tecnica che il regista inglese usa per presentare le donne e la loro situazione di partenza. Come nei lavori precedenti McQueen ha preso in esame prigionieri, ultimi, reietti nella piramide sociale, anche qui fa lo stesso; mette sotto la lente d’ingrandimento quattro figure femminili, all’inizio con un metaforico cappio al collo, impossibilitate ad agire, mosse da rabbia sociale e desiderio di emancipazione, ingabbiate in una società machista, percorsa da profondi conflitti sociali, stretta nella collusione tra politica e criminalità, in vista di un trauma che cambierà tutto. I giorni di oppressione, di violenza e di noiosa quotidianità uniti a quei minuti di spari e ansia che montano, spiegano perfettamente come Widows sia sintesi di relazioni, di maturazione e di azione.
 

Oltre ad essere un film di sicari, di bombe che esplodono, di fughe per inseguire o scappare, è un’opera di rapporti, tra neri e bianchi, ricchi e poveri, criminali professionisti e dilettanti, uomini e donne


Oltre ad essere un film di sicari, di bombe che esplodono, di fughe per inseguire o scappare, è un’opera di rapporti, tra neri e bianchi, ricchi e poveri, criminali professionisti e dilettanti, uomini e donne. Non ci sono più maschi che tradiscono, picchiano, trascurano la propria famiglia, c’è invece il femminino che, proprio per il lutto, per la mancanza, sovverte le regole, sfruttando quella che è l’unica possibilità di riscatto; la protagonista per convincere le altre, dice: «Io sono l’unica alternativa ad un proiettile in testa».
Veronica, Linda, Alice e Belle diventano perfette protagoniste del cinema di McQueen, incentrato sul potere e sulla libertà: prendono il proprio posto in questa guerra, spezzano quel cerchio di solitudine, oppressione in cui erano rimaste prigioniere per molto tempo e si riscattano. Per rendere tutto più comprensibile allo spettatore il regista immerge la storia originale della serie tv nei nostri giorni, nell’America dell’era Trump, cambiando la nazionalità delle sue protagoniste, e quel colpo tutto al femminile risulta espressione della sua poetica che si fa politica nel dipinto di un mondo consumato dai conflitti razziali, dal sessismo e dal crimine. Poco importa se l’argomento è il dramma in tre atti dello sciopero della fame di un detenuto, o la ricerca spasmodica di un nuovo corpo da possedere o la tensione verso la libertà di uno schiavo, McQueen sente comunque il bisogno di indagare un luogo, qui Chicago, che diventa espressione geografica e culturale, di usare il suo sguardo come una lama nel tessuto sociale, portando a galla le ombre del sistema e le fragilità di coloro che sono considerati i deboli.

Veronica, corpo riflesso di un insieme di valori specifici, è colta (nei flashback) nel momento della disperazione più profonda nel letto, luogo narrativo nel cinema del regista inglese (in Shame): la donna solo qui dimostra la sua fragilità e il suo sconforto, nelle carni mollemente abbandonate, svestite dei “panni sociali”, nella mano che cerca nel vuoto colui che tanto ama. Si presenta però anche come una dura virago in eleganti completi, durante la costruzione del colpo, mentre lotta contro i pregiudizi e gli ostacoli, e forma la sua squadra di donne diverse per età, ceto, etnia (un’afroamericana, una latino-americana, una polacca). L’incontro non è privo di frizioni: da una parte c’è il contrasto tra Alice, Linda, Belle e Veronica, colpevole di essere il “capo” e di essere diversa da loro, dall’altra quello tra Veronica e Alice, l’una orgogliosamente afro, risoluta e quasi glaciale, l’altra bionda, statuaria, inadatta a questo “lavoro”. Di fronte alle sue compagne, nel covo in cui organizzano passo dopo passo l’impresa, c’è una guerriera, pallida immagine di quella donna succube in qualche modo dell’amore del marito. In un dialogo con le altre pronuncia parole che sono sintesi di ciò che vuole: «La cosa migliore da fare è essere noi stesse perché nessuno pensa che abbiamo le palle per andare fino in fondo». Questo diventa mantra femminista per loro che desiderano occupare un posto nel mondo, bastare a se stesse, essere esempio per i propri figli – nello stesso dialogo Linda incalza: «Se va tutto a puttane voglio che i miei figli sappiano che non sono rimasta con le mani in mano».
 

L’occhio cinematografico pedina Veronica, spaventata e spietata, sola nella sua odissea, come lo sono stati Bobby, Brandon e Solomon, inquadra i giorni disordinati e convulsi di questa eroina


L’occhio cinematografico pedina Veronica, spaventata e spietata, sola nella sua odissea, come lo sono stati Bobby, Brandon e Solomon, inquadra i giorni disordinati e convulsi di questa eroina con la mano cupa propria di McQueen che mette fisicamente ai lati dello schermo i suoi personaggi, mentre li squarcia nel profondo, ma li guarda anche da vicino con primi e primissimi piani, con la solita maestria e con il solito rigore, quasi geometrico. Veronica, come una pantera, cammina indisturbata per poi attaccare il nemico, non indietreggia e rompe gli schemi, così McQueen fa con il genere che scompone e ricompone a suo piacimento. Widows è un thriller elegante e raffinato, asettico ma profondo in cui si riverbera la sua filmografia. La via crucis di Veronica e delle sue compagne è un chiaro manifesto di un periodo storico ben preciso, stravolto e impoverito, un urlo sommesso ma potente di libertà e di emancipazione, di un gruppo di emarginate che rompe le catene nel momento in cui tocca il fondo.


Commenta