Cuckoldismo come la vita

Il Gioco di Carlo D'Amicis: tradire, dominare, scegliere

Quando a metà degli anni settanta diede il via al suo progetto sulla storia della sessualità, Foucault decise di intitolare il primo volume con una formula ambigua: la volontà di sapere non si riferiva al desiderio di scoperta e di avventura tipicamente adolescenziale che si prova alla scoperta del proprio copro e dei corpi altrui, quando piuttosto al desiderio del potere di sorvegliare e punire tutte quelle forme di sessualità tipicamente non conformi. Se per tutta l’epoca classica il sesso era stato considerato un tema su cui si poteva essere ‘franchi’, la modernità aveva risospinto la sessualità nelle sfere più private della vita individuale, relegandola alla camera da letto matrimoniale e alla sua funzione riproduttiva. Ma poi arrivò la postmodernità, ed il sesso tornò ad essere slegato dalle costrizioni della famiglia e della coppia, tornò ad essere libero. O quasi. Alla nuova liberà dei corpi non corrispose altrettanta libertà alle parole: le nuove forme della sessualità, pur moltiplicandosi, continuavano a farlo di nascosto, ai margini di una società che continuava a far finta che non esistessero, quasi a volerne scongiurare l’esistenza.

Il gioco, ultimo romanzo di Carlo D’Amicis, si pone in quel margine. Al centro c’è la curiosità di uno scrittore di mezz’età – maschio, bianco – che decide di intervistare Leonardo, Eva e Giorgio – bull, sweet e cuckold – i tre vertici di un triangolo erotico che dura da circa vent’anni. Una storia attraverso la quale il narratore cerca di conoscere i limiti estremi della sessualità: ciò che, per il suo semplice nascondersi, pertiene all’osceno.
 

La curiosità ambisce sempre a essere scandalizzata. Perciò, come un’erezione messa in mano alla sweet un attimo dopo le presentazioni, risponderò al suo bisogno d’indecenza offrendole subito la risposta che si aspetta di sentire: il bull è un maschio dominante che sottomette cornuti consenzienti scopandosi le loro femmine. Detto questo, spero che lei, per scrivere il suo libro, non voglia ispirarsi a certe zoccole posizionate all’ingresso dei privé, per le quali un cazzo duro non è altro che un cazzo da ammosciare il prima possibile: se così fosse non ci sarebbe molto da aggiungere. (Leonardo, il bull)


Serviranno più di «cinquecento fogli […] a raccontare questa storia», cinquecento pagine nelle quali ognuno dei tre intervistati darà voce alla propria storia, racconterà l’origine delle proprie pulsioni, confesserà le conseguenze dei desideri che ne hanno condizionato, in bene e in male, l’esistenza. L’anonimo intervistatore li incontra da soli e ad ognuno concede di raccontarsi al riparo dallo sguardo degli altri, lo stesso sguardo che invece è alla base del loro ‘gioco’, del patto che per vent’anni li ha legati insieme in una relazione in cui marito e moglie hanno permesso al terzo uomo di entrare nelle loro vite fino a diventarne parte integrante. Il cuckoldismo dopotutto vive di sguardi, più che di sesso: di curiosità e di volontà di sapere. Giorgio vive nell’ossessione che la moglie faccia sesso con uomini più capaci di lui di soddisfare la sua inesauribile energia sessuale; Eva decide di vivere il proprio corpo come un’opera d’arte da lanciare contro gli sguardi degli altri uomini, e la propria sessualità come uno spettacolo per suo marito; Leonardo, a sua volta, vive della propria capacità di soddisfare mariti – più che le mogli – insoddisfatti, facendo sesso con le loro donne in cambio di feedback necessari a confermare la sua virilità.
 

La Veritààà, La Veritààà, continuava a essere il nostro grido di battaglia. Ma era come se avessimo scoperto che quella verità era indicibile, e che poteva essere avvicinata solo nel segreto delle nostre coscienze. Sì, nel gioco si annidava qualcosa di indicibile che doveva essere tenuto nascosto perfino al nostro migliore amico. Una volta a casa, brindavamo al ritorno e a tutte le troie del mondo, senza fare parola dei nostri successi e soprattutto dei nostri insuccessi. (Leonardo, il bull)


La scelta di strutturare il libro intorno alle interviste ai protagonisti avrebbe dovuto offrire la possibilità di un dialogo; eppure, alle domande – rare e brevi – dell’intervistatore, seguono risposte lunghissime e monologanti degli intervistati. In questo modo è possibile conoscerne le biografie, scoprire come ognuno di loro abbia avuto un’iniziazione al sesso traumatica (Leonardo), prematura (Eva), o per interposta persona, assistendo alle avventure del padre invece di vivere le proprie (Giorgio). C’è un certo meccanicismo in tutti i racconti, come se il mistero che si cela dietro le loro scelte fosse facilmente riconducibile al loro passato: ogni intervista finisce col diventare uno scavo archeologico alla ricerca del momento in cui il magma vitale delle loro giovinezze si è cristallizzato fino ad assumere la forma e la consistenza definitiva. I ruoli che i tre hanno nel gioco riflettono fin troppo bene i ruoli che ognuno di loro ha interpretato sin dall’infanzia: il maschio virile da cui ci si aspetta l’azione (il bull), la donna-oggetto vittima degli sguardi predatori maschili cui non resta che soccombere o farsi padrona del proprio spettacolo (la sweet), lo spettatore della vita altrui, troppo debole per pretendere di avere una parte attiva nel mondo (il cuckold).
 

In ogni caso le regole fondamentali erano due: che almeno uno di noi rimanesse sé stesso e (condizione ancora più essenziale) che non fossimo mai, tutti e tre insieme, ciò che eravamo. Quella nuova maniera di giocare, così libera, così teatrale, ribaltava l’idea che c’eravamo fatti dell’identità, ci sollevava dalla preoccupazione di tradire noi stessi – preoccupazione che, a pensarci bene, era all’origine di tutte le nostre teorie intorno all’infedeltà. Sfumarono i contorni dell’io e il nostro paesaggio interiore assunse le tonalità avvolgenti e chiaroscurate della pittura post-rinascimentale, fondendoci molto più armonicamente con l’ambiente circostante e donando alla bellezza di Eva un sorriso impreciso alla Monna Lisa. (Giorgio, il cuckold)


Al desiderio dell’intervistatore di scoprire la verità dietro le storie degli intervistati risponde il desiderio dei tre protagonisti di scoprire, attraverso il sesso, quella che sembra essere una verità superiore. Ognuno di loro sembra aver inseguito i propri demoni fino alle conseguenze estreme, alla ricerca di un senso che però continua ineludibilmente a sfuggire. Ognuno di loro racconta la propria storia e offre la propria versione degli anni vissuti insieme. Il risultato è uno strano alone di solitudine che grava indistintamente sulla vita di ognuno e la sensazione che nessuno di loro, nonostante abbiano cercato per tutta la vita l’incontro e la conoscenza dell’altro, degli infiniti altri con cui hanno fatto sesso, sia riuscito a stabilire un contatto. Irrimediabilmente soli, chiusi nella loro personale esperienza del mondo e del sesso, Leonardo, Eva e Giorgio sembrano poter vivere solo negli istanti in cui scelgono di abitare fino in fondo il proprio ruolo all’interno delle regole del gioco.
 

...Eravamo così libere e così schiave… E forse per questo c’identificavamo con i setter che si aggiravano intorno al barbecue: di certo più vicini allo stato brado di quanto non sarebbe mai stato un cane alla catena, erano vincolati a una missione (individuare la preda, addentarla e riportarla indietro) che non ammetteva deroghe. I setter erano l’orgoglio di mio marito. Li nutriva, li pettinava, comprava loro le migliori brandine così come al nostro letto procurava lenzuola di seta, affinché le imbrattassi del seme dei miei amanti. (Eva, la sweet)


Prendere o non prendere parte al gioco è una libera scelta, e ognuno può liberamente decidere di chiamarsi fuori. Eppure il gioco, con le sue regole e le sue routine, i suoi ruoli assegnati e definitivi, assomiglia più ad una prigione nella quale godere di una libertà infinita che troppo spesso ha il volto della costrizione. Nonostante l’apparente trasgressione alla base del cuckoldismo, infatti, i rapporti di genere tra le parti, le dinamiche di forza e di potere, vengono rinsaldati fino all’estremo. Soltanto Giorgio, sebbene schiavo delle proprie ossessioni, può dirsi davvero padrone, regista e burattinaio del gioco: è il suo voyeurismo a far sì che Leonardo (e gli altri bull) possa inseguire la propria virilità alla luce del sole; è lui che concede alla moglie la libertà di una vita sessuale senza le limitazioni della morale borghese. È sempre lui a dettare le regole, così come a dare e rimuovere il consenso definitivo.

Come già avvenuto in passato (La guerra dei cafoni, La battura perfetta), anche in Il gioco D’Amicis sceglie un argomento che pertiene all’osceno, al pornografico (in senso lato, inteso come ciò che viene mostrato senza mediazioni), per parlare della società nel suo complesso. La sessualità diventa allora il reagente che mostrerà i cambiamenti degli ultimi cinquant’anni della società occidentale: la progressiva liberazione dei corpi e dei desideri, il passaggio dalla trasgressività delle pratiche più estreme fino alla burocratizzazione e codificazione degli angoli più reconditi del desiderio, dalla rivoluzione sessuale alla mercificazione e reificazione ultima della carne (“se voglio divertirmi, adesso me ne vado al Flirt, al Fermento o all’Happy Days: entro, scopo e me ne vado...”, dice uno dei bull).
 

Prendere o non prendere parte al gioco è una libera scelta, e ognuno può liberamente decidere di chiamarsi fuori


Ogni intervista, da una parte, segna l’affievolirsi del desiderio individuale; dall’altra, sommata alle altre, segna l’affievolirsi del desiderio ad un livello più ampio, sociale: «L’invecchiamento, i sentimenti, l’infarto, la noia – tutto congiurava a farci smettere...». Il romanzo segue lo stesso andamento: all’energia delle prime pagine – e delle prime pagine di ogni intervista – fa seguito un progressivo affievolirsi del desiderio e le singole storie declinano verso l’epilogo esattamente come le tre vite nella vecchiaia: alla presenza ossessiva del sesso, nel romanzo fa da contrappunto la pervasività della malattia e della decadenza del corpo, del tempo che passa e che porta con sé ogni energia vitale. Una volta concluso il romanzo, ciò che resta più forte è un senso di noia, di sovraesposizione al desiderio che ha finito quasi con l’annullarlo, un’angoscia leggera e diffusa, un senso di vuoto, il panico di dover far i conti con la verità dell’ultima pagina. Ossia con la morte.
 

L’intervistatore comincia a dubitare dell’oggettività del tempo, o almeno della sua capacità di misurarlo. Forse il cuckold se n’è andato soltanto da cinque minuti, o forse è rimasto a casa sua per più di un anno. E allora, quanto tempo ha passato con il bull? Quanto con la sweet? Dando credito alla follia di quei pensieri, l’intervistatore corre in bagno e si guarda allo specchio. Si trova invecchiato, in effetti, ma non così tanto come aveva temuto. Temere non è la parola giusta. L’intervistatore è terrorizzato. Ma no, il terrore è sempre uno stato emergenziale, dura poco. La sua angoscia, invece, minaccia di durare a lungo. (il narratore)
 


Lorenzo Mecozzi
Pubblicato nello Speciale Premio Strega 2018


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