Cose note e cose mai dette
Il solito linguaggio - Considerazioni classiche e moderne sulla facoltà linguistica
«Nei linguaggi umani
non c’è proposizione che non
implichi il mondo intero»
J. L. Borges, La scrittura del dio
Esiste un pensare franco, ostinato, sincero; un pensare differente e consapevole di esserlo, dunque desideroso di oltrepassare le barriere dell’insulsa quotidianità. Le sue intenzioni possono essere ambiziose al punto da renderlo presuntuoso ed incomprensibile ai più. La filosofia può essere antipatica, tanto più quando rende dogmatico ciò che alle masse appare intuitivo, o quando si arrocca nella fortezza della metafisica con i suoi arcani segreti. Ma è un fatto che essa può (e deve) sporgersi il più possibile verso i baratri del senso comune. La scomodità della filosofia risiede nella sua capacità di inoltrarsi nei territori ignoti del sentire ordinario, o meglio nello sforzo perenne, come scriveva Hegel, di rendere conosciuto ciò che è soltanto noto.
Trattiamo però la filosofia come un’estranea, come se fosse un metodo o una forma di ragionamento che non può appartenere a tutti. Ma se il suo scopo è rendere conosciuto ciò che è solo noto, allora l’oggetto del suo pensare è lo stesso di quello del poeta, dell’ingegnere, dell’avvocato, del calzolaio e via così. Vale a dire che ciò che fin dall’inizio è noto ad essi, è noto anche al filosofo.
Ma non soltanto l’oggetto è lo stesso, ma pure l’abito verbale tramite cui questo si rende manifesto e utilizzabile. I termini e le regole della comunicazione filosofica, infatti, non appartengono ad un altro idioma rispetto a quello dei non-filosofi. I filosofi parlano la stessa lingua degli uomini della strada. Nelle parole di tutti i giorni, così come nelle proposizioni della scienza, si celano i nostri comportamenti razionali, i nostri rapporti al mondo conosciuto. Siamo in grado di conoscere la realtà poiché sappiamo definirla, cioè creare spiegazioni che dicono le cose, danno loro un senso. Imparare a definire è un atteggiamento razionale, il quale guida il nostro pensiero e gli dà una forma linguistica. Persino i processi di apprendimento, da quando siamo neonati fino all’età adulta, sono intrisi di questa capacità definitoria: quando insegniamo ad un bambino a indicare quella cosa lì e chiamarla ‘cane’, o ‘papà’, o ‘triciclo’, nient’altro stiamo facendo se non inculcare nella sua testa il fatto che ad un nome corrisponde un oggetto; quando crescerà sarà in grado di ‘spiegare’ il significato di questo nome, cioè lo saprà definire.
Il primo e vero ostacolo del filosofo, allora, sarà quello di cercare ciò di cui si costituiscono questi rapporti tra pensiero, linguaggio e mondo, che forma essi posseggono, qual è la loro funzione: perché «L’analisi filosofica è, in un certo senso, un tentativo […] di rendere esplicito quello che nel processo di apprendimento è stato solo implicito[1]». Ma allora, se la superficie nota su cui ci muoviamo è la stessa per tutti, perché la filosofia comunemente intesa crea tante difficoltà? Perché le sue generalizzazioni su Dio, il mondo, l’eternità sono tanto astruse?
Poniamoci questa domanda: se il pensiero filosofico è differente da quello ordinario, dove si origina tale differenza? Ebbene, essa risiede nella specifica volontà sopra abbozzata: l’intenzione del filosofo è di portare a galla le naturali strutture del nostro pensare. Il fine è rendere visibile quello che il comune buon senso oscura: noi usiamo le parole, i loro significati e le loro maniere di concatenazione reciproca senza averne una chiara e distinta conoscenza. Ed è un fatto che noi pensiamo la realtà così come la diciamo. Facciamo un esempio: ‘Il gatto è rosso’ è una proposizione. Ovvio. Il ‘gatto’ è soggetto, e ‘…è rosso’ è predicato nominale. Chiaro. Ma cerchiamo di scrutare quel che sta dietro le quinte della proposizione ‘Il gatto è rosso’.
Tramite una proposizione come questa noi conosciamo un pezzettino di mondo, e ci rapportiamo ad esso intellettualmente, ovvero il nostro pensiero del gatto è vincolato alla struttura proposizionale ‘soggetto + predicato’: se non avessi mai sentito dire ‘Il gatto è rosso’, ma conoscessi il significato dei singoli termini ‘gatto’ e ‘rosso’, alla prima occasione in cui mi si dice ‘Il gatto è rosso’ assocerei il termine ‘gatto’ al termine ‘rosso’, e coglierei in maniera unitaria l’immagine dell’oggetto ‘gatto rosso’. Ora: come fanno un soggetto ed un predicato a donarmi l’immagine di un oggetto, una cosa che sta nella realtà e non dentro il linguaggio? Ma poi, quali sono le regole dell’associazione tra un soggetto e un predicato? E che significa afferrare il significato della proposizione ‘Il gatto è rosso’? Ed anche una volta afferratolo, come posso assicurarmi della verità di questa frase? Se l’essere vero di un enunciato significa ‘corrispondente alla realtà’, allora la frase suddetta è vera se e solo se ci sono degli oggetti del mondo che sono effettivamente ‘gatti’, ed effettivamente ‘rossi’. Quindi verità vuol dire corrispondenza tra enunciato e pezzettino di mondo? E se mi trovassi di fronte alla proposizione ‘Gli alieni esistono’? Indubbiamente potrei dare un significato alla proposizione, ma posso giudicarla ‘vera’? Che conoscenza veridica abbiamo dell’esistenza degli alieni, se non semplici supposizioni? Insomma, significato e verità sono o non sono la stessa cosa?
Queste domande non sono frutto di una mente masochista. Sono piuttosto questioni cui la filosofia non può non far fronte. Spesso però si sente dire che questa, specialmente quando è metafisica, si distanzia così tanto dalla semplicità della vita quotidiana da risultare incomprensibile. Ed in effetti, come può un linguaggio che produce enunciati quali ‘Il nulla nulleggia’ oppure ‘L’Esserci è sempre avanti a se stesso’, a non destare un pizzico di disorientamento?
Dobbiamo portare alla luce le dinamiche nascoste del nostro linguaggio. Dobbiamo farlo perché, come possiamo intuire da questa breve serie di domande sopra riportate, non possiamo pervenire ad una felice comprensione dell’essere umano senza avere dapprima analizzato le regole semantico-sintattiche (quindi anche le regole ‘mentali’), che presiedono alla conoscenza nota e ordinaria del mondo.
Parecchi sono stati gli sforzi da parte del mondo filosofico di dare risposta a queste domande: parecchi sono stati i risultati intriganti, alcuni dei quali persino difficili da ingoiare con facilità. Alludiamo soprattutto alle ricerche specialistiche del XX secolo, ispirate all’opera di Frege, a quella di Russell e di Wittgenstein. Ognuno di loro, così come i loro colleghi e successori, hanno dato vita a quella che oggi viene comunemente chiamata ‘filosofia analitica’: l’analisi è il senso della filosofia, cioè il suo compito primo. L’analisi è lo studio al microscopio del linguaggio e dei suoi tanti strati sovrapposti, come la grammatica, la semantica e la pragmatica.
Non ci sembra paradossale, a fronte di quanto espresso in questo abbozzo, riassumere in modo figurato il carattere dell’indagine linguistica contemporanea, rubando a Borges una splendida immagine: «Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone.
Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto[2]». Il labirinto del linguaggio viene sviscerato in ogni suo dettaglio: per quanto la figura assunta dalle teorie o dalle nozioni che lo rappresentano possono talvolta accavallarsi, particolareggiarsi, sovrapporsi e magari confondersi, quel che alla fine scopre il filosofo del linguaggio è che quel labirinto dice qualcosa di se stesso: il linguaggio e le sue forme dicono l’uomo.
[1] M. Dummett, Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 19.
[2] J. L. Borges, L’artefice, Adelphi, Milano 1999, p. 195.
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