Contro il pacifismo di facciata
Perché la guerra in Ucraina è una guerra di liberazione e quali sono le responsabilità della politica italiana
Ogni anno, il 25 aprile, l’Italia democratica festeggia la liberazione dal nazifascismo, celebrando il sacrificio dei partigiani e degli Alleati. Al di là delle polemiche, delle strumentalizzazioni e delle squallide beghe che puntualmente attraversano il Paese come un fastidioso rumore di fondo, il 25 aprile è e rimane il momento più importante della nostra vita civile. Mio nonno materno, che purtroppo non ho mai conosciuto, combatté nelle file dei partigiani comunisti: due medaglie dell’Anpi perpetuano il ricordo di questo momento cruciale della sua vita, quando con il fucile andava ad ammazzare i nazifascisti. Perché in una guerra di liberazione si fa esattamente questo: si uccide il feroce oppressore per affermare il proprio diritto di esistere, negato dalla barbarie degli invasori. La repubblica, la costituzione, il parlamento eletto con libere elezioni non sarebbero mai nati senza la morte dei nostri nemici: sui loro cadaveri abbiamo edificato la nostra democrazia, nella quale nessuno viene perseguitato – almeno finora, per il futuro si vedrà – perché afferma idee non allineate, appartiene a etnie minoritarie o professa religioni differenti da quella cristiana, come invece accadeva nell’Italia fascista, nella Germania nazista, nella Repubblica di Salò e nella Adriatisches Küstenland di cui faceva parte anche Trieste, dove a due passi dal centro fu impiantato un campo di sterminio in cui ci si divertiva a gasare gli internati con i fumi di scarico dei camion.
Contro questi mostri una parte degli italiani reagì nel solo modo che era possibile: uccidendoli, poiché nelle fauci dello squalo non esiste alcuna diplomazia. Comunisti, socialisti, cattolici, azionisti, liberali e persino monarchici fondarono il Comitato di Liberazione Nazionale, che lavorò al fianco delle truppe angloamericane (senza le quali l’Italia moderna non esisterebbe) per restituire dignità a un paese sprofondato nell’abisso. Cesare Pavese, nel romanzo La casa in collina, raccontò la fine del conflitto in un passo divenuto celebre:
Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
L’esegesi del brano è stata più volte manipolata dai neofascisti con l’intento di equiparare partigiani e «ragazzi di Salò», ma le parole di Pavese sono inequivocabili: al netto della pietas nei confronti dei morti (sentimento ignoto nei lager nazisti), il sangue dell’oppressore va placato dopo averlo sparso (e occorre «giustificare chi l’ha sparso»). Si tratta di concetti elementari, cardine di qualunque democrazia compiuta, ma nell’Italia del 2022 sembrano passati di moda, se è vero che un Alessandro Orsini qualunque, in una trasmissione condotta da una giornalista che di cognome fa Berlinguer (!), può permettersi di affermare bestialità immonde quali «mio nonno sotto il fascismo stava bene». Il mio no, e nemmeno suo fratello, rastrellato dai tedeschi e scomparso per sempre.
Il cartello di un manifestante contro l’invasione dell’Ucraina che associa Putin a Josef Stalin e Adolf Hitler
I fatti del 24 febbraio 2022, quando il territorio dell’Ucraìna (uno stato libero guidato da un governo regolarmente eletto dal popolo) è stato invaso dalla Russia di Putin (un despota che ha costruito la sua fortuna con le stragi della Cecenia, l’eliminazione degli oppositori politici e il controllo assoluto dei media), non sono lontani da questo quadro. A dispetto della «complessità» evocata da indecorosi “analisti” che inquinano la nostra atmosfera con la CO2 della loro miseria intellettuale, la lettura di questo conflitto è piuttosto semplice: da una parte ci sono i nuovi nazisti (le truppe di Putin) che ordinano stupri, massacri, fosse comuni e traffico di esseri umani, dall’altra i nuovi partigiani (gli ucraìni) che si difendono e chiedono l’aiuto dei nuovi Alleati (l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America) per affermare la libertà della propria terra. Qualunque deviazione da questa assoluta evidenza – e allora la NATO? e i missili americani puntati contro Mosca? e il genocidio del mitologico “popolo del Donbass”? – deriva da argomenti costruiti ad hoc dalla propaganda russa. Piuttosto che ribattere a queste indecenti menzogne, già ampiamente smentite da una bibliografia sterminata, occorre rispondere a una domanda ineludibile: cosa significa essere antifascisti oggi? Esaltare la celebre immagine delle gappiste milanesi con il fucile in mano e poi rifiutare l’invio di armi alla resistenza di Kyiv? Esecrare l’imperialismo mussoliniano in Etiopia e contemporaneamente chiedere il «riconoscimento dello status de facto della Crimea», come ha sostenuto (tra gli altri) l’illuminato Massimo Cacciari su Avvenire?
Cosa significa essere antifascisti oggi? Esaltare la celebre immagine delle gappiste milanesi con il fucile in mano e poi rifiutare l’invio di armi alla resistenza di Kyiv?
Questa doppiezza morale, appoggiata da giornali compiacenti, televisioni complici e politici senza dignità come Giuseppe Conte, trova terreno fertile nel mondo accademico di cui pure faccio parte (credo ancora per poco): uno squallido deserto attraversato dai vari Tomaso Montanari, Luciano Canfora e altri virgulti che da anni, tra un appello sul Fatto Quotidiano e un’eruzione cutanea di marxismo, contribuiscono a devastare le nostre università con il veleno delle ideologie, salvo poi indignarsi se i ricercatori della mia generazione sono costretti a espatriare (anche per fuggire da loro, ma questi gigli fanno finta di non saperlo). Tra i mille comunicati che ho visto scorrere in questi anni sulle newsletter istituzionali, mai una volta ho visto levarsi mezza parola di sdegno nei confronti della Russia di Putin: soltanto Amerika con la kappa e ‘pericolo fascismo’ a ogni colpo di tosse. Né ho visto manifesti e iniziative dopo il 24 febbraio, se non la protesta contro il convegno di Fabio Roscani e Daniele Capezzone alla Sapienza di Roma: una vera emergenza nazionale, in effetti, molto più urgente rispetto alla salvezza dell’Ucraìna.
I manifestanti chiedono sostegno all’Ucraina di fronte alla Casa Bianca a Washington allo scoppio della guerra, nel febbraio 2022. Foto di Ted Eytan
Ho invece assistito a generiche richieste di pace levatesi prima dalla grande parata di Napoli (28 ottobre), poi dalla tragicomica sfilata “per la pace” di Roma (5 novembre). Sui due palchi e in entrambe le piazze si sono avvicendati i volti noti della “vera sinistra”, da Vincenzo De Luca (che per l’occasione ha chiuso le scuole della Campania) a Michele Emiliano (quello de «il cantiere del TAP sembra Auschwitz»), ma altrettanto forte era la presenza del solito mondo cattolico, con in testa il giornalista Marco Tarquinio, secondo cui «le sanzioni non fanno meno male dei bombardamenti» (amici di Mariupol, prendete nota e smettetela di lamentarvi). Entrambe le manifestazioni hanno sfogliato l’intero campionario del pacifismo italico: «chi vuole il bene del popolo ucraino deve volere la pace, deve volere un negoziato che viene dal confronto con il nemico» (Stefano Fassina); «siamo convinti che non può esistere pace senza giustizia sociale e giustizia ambientale» (Giuseppe De Marzo); «è una piazza che vuole dire no a chi continua a volerci far credere che la pace ha bisogno di armi» (Rosy Bindi); «mi auguro che da qui parta un grande movimento popolare contro le armi, la guerra» (padre Enzo Fortunato). Si è urlato un generico cessate il fuoco, con un subdolo imperativo plurale finalizzato a mettere sullo stesso livello vittime e carnefici, e si è reclamato a gran voce il ritorno della diplomazia, la stessa che Putin ha calpestato e continua a insultare, ma non si è trovata la dignità di sottoscrivere la dichiarazione della premier finlandese (e progressista) Sanna Marin: «La via d’uscita dal conflitto è una sola: che la Russia lasci l’Ucraìna».
Dinanzi a questa ipocrisia, a questa fuga dalla realtà alimentata da un sordo e ininterrotto disprezzo nei confronti del modello liberale rappresentato dall’Occidente (tanto che a Roma circolavano volantini contro «le politiche neoliberiste e capitaliste del governo di Kyiv») provo una repulsione profonda. Agli alfieri del “mettete dei fiori nei vostri cannoni” vorrei porgere tre semplici domande: dove sarebbe finita l’Europa se dall’altra parte dell’oceano il presidente Roosevelt non avesse in un primo tempo spedito armi al Regno Unito e successivamente inviato i propri soldati a combattere contro il regime nazista? Dove può finire oggi, se non aiutiamo il popolo ucraìno a «sollevare in alto il viburno rosso», come invocato nel canto di resistenza Oy u luzi chervona kalyna? Dove finirà domani, se cederemo al ricatto degli invasori?
Si è urlato un generico cessate il fuoco, ma non si è trovata la dignità di sottoscrivere la dichiarazione di Sanna Marin: «La via d’uscita dal conflitto è una sola: che la Russia lasci l’Ucraìna»
Sarebbe ingeneroso affermare che in mezzo a quei cortei non ci siano anche persone in assoluta buona fede, ma ogni nostra azione provoca delle conseguenze: l’etica delle pure intenzioni è una favola senza morale, sicché opporsi all’invio di armi all’Ucraìna equivale de facto a sostenere la guerra di Putin. L’ingenuità di alcuni può essere perdonata, ma non l’irresponsabilità delle classi dirigenti, alle quali spetta il compito di tracciare una strada, educare le persone alla complessità, spiegare le ragioni di scelte impopolari ma necessarie. Siamo invece costretti a osservare che una quota rilevante della sinistra italiana, dopo averci ammorbato per decenni con il “pericolo” rappresentato dalle destre, si ritrova dalla stessa parte di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, mentre una folta schiera di giornalisti e intellettuali sventola bollette e tassi d’inflazione per sviare il pubblico dai massacri di Bucha. Uno spettacolo disperante di fronte al quale mi domando che senso abbiano queste poche, rabbiose e inadeguate parole, se non quello di connettersi idealmente al popolo che da Kyiv a Berdyansk, da Chernikiv a Zaporizhzhya, da Odessa a Donetsk, sta combattendo una guerra di liberazione. Perché oggi, in questo martoriato 2022, «il fiore del partigiano morto per la libertà» coincide con il viburno rosso della resistenza ucraìna.
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