Con gli occhi del detective privato

Motherless Brooklyn e l'omaggio di Edward Norton ai grandi investigatori del cinema e della letteratura

C’è stato un periodo, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, in cui Edward Norton veniva considerato – a ragione – uno degli attori americani più promettenti della sua generazione. Del resto, parliamo di uno che a poco più di trent’anni aveva già collezionato una serie di ruoli magistrali in film di spessore: dal balbuziente protagonista di Schegge di paura (1996) a Holden, il timido ragazzotto nel “musical” di Woody Allen Tutti dicono I Love You (1996), il neonazista nell’ottimo American History X (1998) e il protagonista dello stracult fincheriano Fight Club (1998); il rampante avvocato di Woody Harrelson/Larry Flynt in Larry Flynt – Oltre lo scandalo (1996), diretto da Milos Forman; il ladro nel polpettone di Franz Oz, The Score (2001), dove non sfigura davanti a due pesi massimi come Brando e De Niro, e Nelson Rockefeller in Frida (2002).
E poi viene La 25a ora (2002), uno dei migliori lavori di Spike Lee, ma anche una delle parti più significative per Norton, che però da lì in avanti è tornato di rado a ricoprire ruoli di questo spessore. Non bastano buoni film di mestiere come The Illusionist (2006), il Re Lebbroso in Le crociate (2006) di Ridley Scott, o simpatiche commedie come Fratelli in erba (2010) per portare avanti una carriera iniziata in modo tanto fulmineo. E stendiamo un velo pietoso sulla parentesi supereroistica con L’incredibile Hulk (2008) di Louis Leterrier.
 

A ritirare su Edward Norton ci hanno pensato Wes Anderson con Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel e Iñárritu con Birdman. Nel 2019 il film che sembra il riscatto definitivo: s’intitola Motherless Brooklyn


A ritirarlo su ci ha provato Wes Anderson, con particine in Moonrise Kingdom (2012) e Grand Budapest Hotel (2014), richiamandolo in seguito a doppiare il cane Rex nel meraviglioso L’isola dei cani (2018), ma a riportarlo davvero nell’Olimpo del cinema ci ha pensato Iñárritu, che nel suo Birdman (2014) gli ha regalato la parte dell’attore perfezionista, incazzoso e manipolatore con cui si guadagnerà, tra le tante ricevute dal film, anche una nomination all’Oscar. Tuttavia, questo nuovo exploit pare non esser stato sufficiente per il buon Edward, ritrovatosi di nuovo a centellinare le sue apparizioni al cinema e non sempre in pellicole di qualità. Nel 2019, però, arriva il film che sembra il riscatto definitivo: s’intitola Motherless Brooklyn, dove lui produce, scrive e si auto-dirige da protagonista.
Non è in realtà la prima volta che Edward Norton si cimenta dietro la macchina da presa. Il suo battesimo avviene infatti nel 2000 con Keeping The Faith – in italiano malamente reso con Tentazioni d’amore –, una sottovalutata commedia romantica dove lui è un prete cattolico e Ben Stiller un suo amico d’infanzia divenuto rabbino.

Ci sono voluti quasi vent’anni per riavere il Norton regista, stavolta alle prese con un progetto più ambizioso, un’idea che gli frullava in testa da anni. L’intento principe era forse proprio quello di cucirsi addosso un ruolo difficile ed estremo come quelli di un tempo; ma non solo: l’attore, con Motherless Brooklyn, ha voluto sviluppare un film più stratificato e complesso di quanto non sembri, e non è secondaria la fonte d’ispirazione, ossia l’omonimo romanzo (1999) di Jonathan Lethem.
 

La parola è tutto. Lasciatemi sfogare e vedrete. Divento un imbonitore da fiera, un banditore d’asta, un attore teatrale, un oratore pieno d’ispirazione, un senatore ubriaco d’ostruzionismo. Ho la Tourette. La mia bocca non si ferma mai, anche se per lo più bisbiglio o mi mangio le parole come se leggessi ad alta voce, con il pomo d’Adamo che saltella, i muscoli delle guance che mi pulsano sotto la pelle, le parole che mi sfuggono, semplici fantasmi di se stesse, le frasi prive di respiro e di tonalità. (Se fossi uno dei cattivi di Dick Tracy, sarei Borbotto).


L’incipit del Motherles Brooklyn di Lethem mette subito nero su bianco la patologia del narratore-protagonista: la sindrome di Tourette è il suo tratto peculiare, che all’interno del testo ha dato modo allo scrittore statunitense di giocare con i vari tic verbali di Lionel Essrog. Nell’adattamento di Norton, il personaggio mantiene naturalmente la caratteristica, ma non nomina mai esplicitamente la Tourette, nonostante la malattia fosse già stata scoperta nell’Ottocento dal medico francese di cui porta il nome.

La scelta è in sé interessante, specie alla luce del cambio di collocazione temporale operato nella versione filmica: il libro è ambientato alla fine degli anni Novanta, mentre il film sposta tutto nei primi anni Cinquanta, un periodo nel quale, malgrado il progresso scientifico, non si dava probabilmente troppo peso a certe patologie psichiche. Inoltre, così Norton ha voluto sottolineare la natura randagia del suo personaggio, orfano preso sotto l’ala di Frank Minna (un Bruce Willis in un’apparizione breve ma di peso), capo di un’agenzia investigativa per cui Lionel lavora anche grazie alla sua sorprendente memoria fotografica. Per Lionel, Frank non è solo un capo: è un padre, un mentore, un punto di riferimento. E mentre Lionel e il collega Gilbert (Ethan Suplee) stanno svolgendo per lui un’operazione di copertura durante un suo incontro con William Liebermann (Josh Pais) e i suoi scagnozzi, Frank Minna viene ferito gravemente e muore poco dopo in ospedale. Per Lionel Essrog il trauma è incalcolabile: e da qui, come nel romanzo, s’innesca la fitta trama del film. L’antieroe, con indosso il cappello e il cappotto di Frank, vestirà i panni del detective per scoprire a ogni costo chi e che cosa si cela dietro l’omicidio del suo boss. Come in ogni noir che si rispetti, l’affare si rivelerà più grande di lui.

Lionel è un investigatore sui generis, tanto geniale da un lato quanto disordinato dall’altro. Il suo disturbo dà modo a Edward Norton di dare sfogo a tutte le sue doti mimiche e vocali, traendone una vera interpretazione da Actor’s Studio. Se il livello della regia e della sceneggiatura fossero al livello della sua recitazione, saremmo di fronte a un capolavoro; ma così non è, sebbene si tratti di un film valido, per il quale l’attore-regista-sceneggiatore si è impegnato a fondo, mettendo tutto se stesso in questa sua personale ricostruzione del noir hollywoodiano, del quale il film replica diversi topoi. Come avviene per esempio nella sequenza in cui Lionel, dopo aver vagato per la città fingendosi un giornalista e aver fatto la conoscenza di Laura (Gugu Mbatha-Raw), ragazza che assieme a Gabby Horowitz (Cherry Jones) si batte contro la riqualificazione di Brooklyn, giacché lascia senza casa un tetto la povera gente, decide di recarsi in un club sul quale il suo defunto boss aveva già messo gli occhi. Giunto sul posto, un fumoso locale ad alta frequentazione afroamericana, Lionel vorrebbe indagare meglio sulla cosa, ma viene colpito dal lì presente padre di Laura, Billy (Robert Wisdom), perché scambiato per uno sgherro di un potente consigliere comunale. Dopo averle prese, però, il nostro investigatore riesce a suo modo a fare due più due, a scoperchiare il vaso di Pandora dal quale esce un intricato giro di tangenti a sfondo immobiliare.
 

A differenza del romanzo, il film sceglie comunque una via citazionista virata piuttosto all’omaggio degli immaginari di Raymond Chandler e a Dashiell Hammett


Dove il romanzo aveva un impianto parodistico, efficace nel rivelare al lettore l’impostura narrativa attraverso una serie di testuali rimandi a Raymond Chandler e a Dashiell Hammett, il film sceglie comunque una via citazionista, ma virata piuttosto all’omaggio. I nomi di Philip Marlowe e Sam Spade per Lethem erano un pretesto tutto postmoderno per giocare col genere, per spingere al massimo sul pedale dell’ironia: ironia che non manca al Motherless Brooklyn nortoniano, che mantiene intatta l’ossatura della storia, mutandone in parte il sistema dei personaggi e aggiungendo un sotto-testo politico che punta il dito sulla collusione tra malavita e classe dirigente. È il Moses Randolph interpretato da Alec Baldwin, responsabile comunale di New York per lo sviluppo urbano, a incarnare il malaffare, in una città nella quale Lionel si trova fagocitato, inghiottito in un vortice di botte, di locali malfamati e di personaggi ambigui come Paul (Willem Dafoe: inutile ribadirne la bravura), il fratello reietto di Moses.
Non possono poi mancare le donne: non c’è invero una femme fatale come ai tempi del vecchio Bogart o di La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder, bensì un personaggio femminile, Laura, anche lei vittima del marciume del sistema, che funge da aiutante, diventando quasi una coprotagonista. La bionda Lieslie Mann presta invece il volto e le movenze a Julia, vedova di Frank Minna, con più di uno scheletro nell’armadio; gli stessi scheletri posseduti anche dal collega di Lionel, Tony – il sempre ottimo Bobby Cannavale – messo a capo dell’agenzia proprio dalla moglie di Frank.

In questa Brooklyn senza madre, orfana come Lionel Essrog, non ci si può fidare di nessuno, o quantomeno di pochissime persone. Di certo lo spettatore, a questo giro, al netto di una lunghezza eccessiva e di qualche sbavatura a livello di scrittura, può fidarsi del lavoro di Edward Norton, che ha finalmente portato a casa un film covato per lungo tempo, nel quale troviamo un cast ben diretto e pregevoli trovate visive – alla fotografia c’è Dick Pope, già al lavoro con Mike Leigh e Richard Linklater.
Non siamo certo ai livelli di un altro recente adattamento noir-postmoderno, ossia Vizio di forma (2014), dove Paul Thomas Anderson ha portato al cinema l’opera di Thomas Pynchon, affidando a Joaquin Phoenix la parte del detective Doc Sportello. Furono in molti in quel caso a fare parallelismi con Il grande Lebowski (1997): il film dei Coen, però, non era che una riscrittura di Il grande sonno (1939) di Chandler, portato al cinema nel 1946 da Howard Hawks. Il cuore cinematografico di Anderson, tuttavia, batteva – come ha sempre battuto sin dal principio – per Robert Altman: e lì, nello specifico per il suo Il lungo addio (1973) riletto con estetica anni Settanta. Lo stesso ha fatto Edward Norton, pur senza gli stessi splendidi risultati, con Motherless Brookyn di Lethem, andando indietro nel tempo anziché avanti.

L’atto d’amore di Norton verso i film di Huston, Hawks, Wilder è riuscito; non ne sfiora le vette, ma le atmosfere ci sono, coadiuvate dalla musica e dalla ricostruzione della New York anni Cinquanta


Ad ogni modo, l’atto d’amore di Norton verso i film di Huston, Hawks, Wilder, Preminger e altri mostri sacri è riuscito; non ne sfiora le vette, ma le atmosfere ci sono, coadiuvate da una New York anni Cinquanta ottimamente ricostruita e dalla musica – che non poteva essere quella di Prince ricorrente nel libro di Lethem – di Daniel Pemberton, messa un po’ in ombra dalla presenza in scaletta dalla ballata Daily Battles di Thom Yorke eseguita in collaborazione con Flea dei Red Hot Chili Peppers, già suo compagno d’avventura negli Atoms For Peace. Il brano è stato arrangiato pure in chiave cool-jazz da Wynton Marsalis, nella finzione scenica eseguito dal grande Michael Kenneth Williams nel ruolo di un trombettista che dovrebbe riportare alla mente Miles Davis. Insomma, in molti stanno criticando e criticheranno Motherless Brooklyn, e forse anche motivatamente, ma è innegabile che Edward Norton, con questo film, sia tornato protagonista a tutto tondo e abbia inaugurato una nuova fase della sua carriera. A questo punto gli possiamo solo augurare, come scriveva Soriano citando Il lungo addio, di non tornarsene a casa «triste, solitario y final».


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