Come un tuono di Derek Cianfrance
con Ryan Gosling, Bradley Cooper, Dane DeHaan, Emory Cohen, Eva Mendes
Tre film in uno può venir da pensare all'uscita del cinema, tre atti autonomi, ognuno con il proprio contesto sociale e i propri personaggi, collegati tra loro da un intreccio rizomatico. Fondato su elementi autosussistenti per cui la scomparsa dei componenti originari non si ripercuote sugli elementi originati arrestando il processo evolutivo dell'insieme. Un sistema per cui alla morte dei genitori non segue la morte dei figli, sebbene i figli siano la diretta conseguenza dei genitori. Un'organizzazione edificata su nessi di causa-effetto non vincolati, dove l'effetto perdura anche quando la causa scompare. Non si tratta di “tolto un dente, via il dolore”, non è una malattia ma una linfa piuttosto vitale quale è il virus della vita stessa. La vita dei vari personaggi del film, che guardando all'insieme dell'opera filmica rappresentano le tappe dell'esistenza di un solo uomo piuttosto che singole entità separate. Perciò il film non può interrompersi alla morte di Luke Glanton (Ryan Gosling) per mano di Avery Cross (Bradley Cooper) e non cambia nemmeno direzione se assumiamo come passibile d'interpretazione l'identificazione dei molti in un singolo personaggio; dei protagonisti principali summenzionati e dei rispettivi figli (Dane DeHaan e Emory Cohen).
Non si tratta quindi di tre film in uno come l'apparenza poteva far sembrare, ma delle diverse personificazioni di un Io che edifica stazioni di un percorso interiore e universale, lastricato di colpa, espiazione e pentimento, per arrivare alla redenzione. Stupisce che una struttura filmica costruita in tal senso sia un prodotto del cinema americano, abituato a svelare più una cultura di matrice protestante che cattolica (50.9% della popolazione adulta a fronte del 25.1%), ma stupisce meno se si considera la dichiarata educazione cattolica del regista Derek Cianfrance comunicata in un intervista al The Observer in cui afferma che, pur avendo abbandonato la fede religiosa impartitagli da bambino, fu influenzato moltissimo dalla visione de Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, da cui trasse una notevole lezione spirituale, riversandola nella propria cinematografia. The Place Beyond the Pines si dipana così, come una personale messa in scena della via crucis percorsa da quell' “Uomo universale” assunto come protagonista. Cianfrance, al suo secondo film, dopo l'apprezzato Blue Valentine, compie un'operazione sottile dalla quale emerge una precisa poetica, la quale, sottrae all'aspetto iconografico delle rappresentazioni cristiane il sostrato simbolico relazionale attualizzandolo in un nuovo significante, una nuova forma per dei significati storicamente convenzionati. Quando parla di verità dell'individuo come possibile solo all'interno della famiglia, unico luogo dove la maschera sociale può venir accantonata, il referente è “La Famiglia” non una famiglia qualsiasi, quella Famiglia nata in Blue Valentine, dove un uomo sposa una donna offrendosi di crescere il Bambino che questa ha avuto con un altro. In questo secondo film il Bambino si è fatto Uomo ed affronta il suo destino, dichiarato fin dal piano sequenza iniziale dove la macchina da presa attraversa lo spazio e il tempo durante i quali Luke/Gosling, mostrandoci solo il dorso ed il costato, apre e chiude per quattordici volte un coltello a farfalla ed esce per darsi in pasto alla folla, iniziando così la propria via crucis. Il coltello è nelle sue mani, non c'è nessun soldato romano, nessun Longino a trafiggerlo, morirà per i propri errori dopo essersi fatto carico della croce di padre e di criminale, ma al soldato statunitense che compie l'esecuzione - primo a far fuoco - passerà la croce della colpa, al poliziotto che mente per proteggere la carriera e che soffocato dal rimorso non riuscirà a sostenere lo sguardo del proprio figlio, a colui che cercherà di espiare i suoi peccati tradendo i suoi colleghi corrotti per diventare procuratore. Cadrà per la seconda volta, si alienerà la famiglia, suo figlio si farà carico della croce di un padre assente. Insieme all'altro figlio, quello di Glanton, diventano amici, accomunati dall'orfanità paterna. Si ameranno e presto si odieranno scoprendo le colpe dei loro padri, lati della stessa medaglia tra rifiuto e accettazione che porteranno alla redenzione il “protagonista universale” in una foresta; quella foresta dove anni prima un padre incontrò l'uomo che lo tentò al crimine e lo portò alla morte, ebbene, in quella foresta un altro padre peccatore piangerà le sue lacrime avverando l'assoluzione. Ciò che resta è una distesa, un campo lungo, un Figlio di Nessuno che corre in moto, via da quel posto al di là delle pianure di pini.
Colpisce la spiritualità dell'opera, ma il realismo della messa in scena maschera una situazione psicologica pensata come unitaria frammentando il messaggio portato sullo schermo. Non emerge di certo l'originalità nell'utilizzo della figura di Gesù, ricordiamo da un lato Bresson con il suo asino e dall'altro la dichiarata influenza Pasoliniana. Se il primo offre un affresco astratto, sebbene indicato, del Cristo, l'altro sfocia nell'iperrealismo. Cianfrance tende a posizionarsi tra questi due poli subendo o acconsentendo – interessante sarebbe sapere se inconsciamente o meno – ad un meccanismo congenito del cinema mainstream americano, quella prassi già delineata da Morin per cui vicende, situazioni e personaggi del passato vengono adattati alla contemporaneità trasferendovi l'azione, modernizzandone luoghi, caratteri e psicologica. La modernizzazione messa in atto dal regista è però capace di elevare il livello di questa pratica ben oltre l'alone di banalità a cui spesso ci ha abituato, confermando un'autorialità coraggiosa.
«Hai un figlio, devi occuparti di lui, giusto?»
USA 2012 – Dramm. 140' ***
Commenta