Come nasce il razzismo
Sul romanzo Questa sera è già domani di Lia Levi, la storia intima di come l'antisemitismo conquistò un popolo
Questa sera è già domani (Edizioni E/O) di Lia Levi è la storia di un confine da raggiungere, di una comprensione da ottenere per fare spazio alla memoria; la storia di come l’ordinaria quiete della vita borghese si trova ribaltata e incontra la sopraffazione e lo sconvolgimento. Nella vita della famiglia Rimon, in una Genova all’alba delle infami leggi razziali, ci sono imprevisti e ci sono facezie, come in tutte le normali famiglie felici. Due sorelle con i rispettivi mariti, un padre di famiglia tutti uniti dalle tradizioni che si portano dietro e, soprattutto, dal nuovo arrivo: il piccolo Alessandro, la voce narrante, il nostro punto di vista sulla città in procinto di venire soffocata dall’incomprensione. Emilia Rimon, lo mette in scena di fronte al lettore quando, con la scusa di presentarlo al rabbino, semplicemente elenca le sue straordinarie e precoci qualità.
Alessandro era diverso. Certe volte non riusciva a finire un discorso perché si incantava di fronte a una parola, se la rigirava fra le mani come se avesse trovato una cosa preziosa e ci si impuntava sopra in una specie di balbuzie amorosa. Poi rideva e anche gli altri ridevano, con un po’ di sconcerto.
La narrazione acquista ritmo via via che si raccontano le piccole dinamiche cittadine, nelle quali lentamente prende forma l’idea che vengano promulgate le leggi razziali; serpeggia un’inquietudine amara nelle parole di tutti i giorni, sotto casa, al ritorno da lavoro, a scuola. Piccole stille che contaminano il quotidiano, che lo infettano, deformando una sfera familiare che se non è perfetta dilata al massimo le proprie capacità e i propri talenti per esserlo, un microclima che non vuole essere disturbato nella sua calma tiepida. Marc Rimon, poliglotta e cittadino del mondo, non riesce a capacitarsi che stia succedendo proprio quello, e che potrebbe succedere anche a uno come lui, in una Genova aperta che cede larghi spazi e piccoli anfratti quotidiani al regime fascista, Osvaldo e Wanda arretrano mentre piccole notizie dall’ombra gigantesca entrano dal pianerottolo sedendosi a tavola con loro.
L’adeguamento alla situazione procede attraverso urti e scossoni, la quotidianità si fa specchio della paura e del dolore, mentre nessuno sembra davvero capire da che parte cominciare ad affrontare la situazione; il primo pensiero è quello di nascondere ad Alessandro ciò che sta succedendo là fuori. Mantenere il piccolo nel suo mondo, preso dalle scoperte infantili dalla spensieratezza tipica dell’essere bambino, è fondamentale; così come fondamentale è mostrare quanto il piccolo genio non fosse poi così un genio, ma solo un bambino come gli altri, che ha imparato a leggere in fretta grazie alle cugine più grandi. Importante, questo, per mostrare ancora una volta la normale, tranquilla, serena banalità di una famiglia qualsiasi. Il punto di vista di Alessandro è essenziale proprio perché è una perfetta metafora dell’evoluzione, del mutamento: il suo processo di crescita da bambino a ragazzo, dapprima curioso e desideroso di assorbire il mondo si trasforma in un vero e proprio atto di accusa allo status quo che la famiglia cerca di mantenere a tutti i costi. Il bambino Alessandro, tenuto all’oscuro di tutto, una volta ragazzo è l’unico a percepire il cambiamento come tale: la minaccia del fascismo cresce con lui, se la vede sfilare accanto severa.
Questa meccanica di analisi che passa attraverso il ricordo è spostata su un piano quasi documentario e fattuale. Certo, tutto è filtrato dalla memoria individuale di Alessandro, e da quella collettiva dell’intera famiglia Rimon, tra le angosce di Marc e le piccole carezze comprensive della zia Wanda. Ed è qui che si compie il sottile depistaggio di Lia Levi: questi non sono ricordi, sono fatti, concreti, vicinissimi e mai come adesso quasi tattili. I personaggi di Levi sono fatti di carne e i suoi fatti, le riunioni delle famiglie per decidere il da farsi, gli aiuti esterni, il confino, sono la presenza del fatto storico. E questo binomio tangibile mostra quanto il ricordo non sia, per quanto anch’esso perfettamente evocato ed evocabile, fantasmatico, ma realtà storica perfettamente narrata: Questa sera è già domani è una lezione di scrittura.
L’andamento disteso ed elegante è innervato dalla forma che la preoccupazione e la paura assumono in ogni personaggio, un nucleo familiare che diventa motore di questa narrazione storica. Ed è nei personaggi, e nei loro moti e spostamenti che si trova il nocciolo della storia: attraverso di loro si racconta il cambiamento, personale e pubblico, la mutazione dei tempi e delle cose. Ognuno deve prendersi cura di sé stesso nei piccoli passi con cui procedere su un terreno minato. Dalla casa dei Rimon fino alla riunione a Livorno, il confino nelle Marche e infine la Svizzera. Il confine da raggiungere, e dietro questo la certezza di sopravvivere si fa percezione e possibilità del cambiamento e insieme fuga da un altro movimento, quello del fascismo che avanza e inghiotte tutto ciò che può prendersi, cui la famiglia Rimon reagisce diversamente, tra slanci di speranza e momenti di paura e disperazione.
Era arrivato in casa dei cognati sventolando il foglio come se fosse un messo comunale. Disse solo: «Ascoltate: “Molte delle impressioni estere sul razzismo italiano sono dettate da una superficiale cognizione dei fatti e malafede…”». Gli ebrei dovevano smettere di lamentarsi. La verità era questa: “Il governo fascista non ha alcuno speciale piano persecutorio contro gli ebrei in quanto tali. Discriminare non significa perseguitare”. L’ultima frase Osvaldo l’aveva quasi declamata. Le due sorelle si erano guardate, poi Wanda aveva chiesto al marito con una specie di tono fra l’intimidito e l’adorante: «Cosa vuol dire?». «Be’» si affannava Osvaldo, «vuol dire che se qualcuno si trova a casa tua, hai per lo meno diritto di sapere chi è e cosa fa. Ma questo non significa essere ostile nei suoi confronti». Marc aveva simulato un silenzioso battito di mani e con quella sua voce, e un sorriso a mezz’aria, aveva solo mormorato: «Bravo! Sei proprio entrato in pieno nella loro mentalità». «Spiegare non vuol dire condividere». Osvaldo aveva risposto risentito, accentuando il tono declamatorio. «Ancora più bravo! Hai anche fatto tuo il loro modo di esprimersi».
Come dicevamo è solo il giovane Alessandro, l’unico pienamente inserito nel flusso della storia che comprende cosa sta succedendo. Per gli altri la preoccupazione, seppur costante, è continuamente elusa, allontanata. Marc per quanto preoccupato cerca di spalmare le sue speranze sul lungo termine, aggrappandosi al suo passaporto inglese risparmiato nell’auspicio che questo lo possa salvare, ma è Emilia soprattutto a negare i fatti che le vengono presentati. Emilia, che per la narrazione è controparte e antitesi di Alessandro, nega i fatti e cerca di giustificarli. Emilia fa la cosa peggiore che si possa fare davanti a ogni forma di fascismo o populismo: lo sottovaluta declinandolo in una forma vuota – che vuoi che sia, non succederà niente –, o facendo assumere alla minaccia una forma assolutamente domestica, rassicurante, magari addirittura positiva.
Tutto è filtrato dalla memoria individuale di Alessandro, e da quella collettiva dell’intera famiglia Rimon, ma questi non sono ricordi, sono fatti, concreti, vicinissimi e mai come adesso quasi tattili
Emilia non può ammettere che per loro l’avvento del fascismo sarà un miglioramento, ragion per cui si vede costretta a gettare ogni nuova minaccia dentro a una comoda obsolescenza senza seguito, sufficiente tuttavia per convincersi che non ha senso lasciare la casa, che bisogna stare tranquilli. Quando si trovano ad ospitare Hermann e Paula, due bambini profughi dalla Germania, la bolla di negazione e false sicurezze comincia a tremare visibilmente. Quei due bambini spaventati portano con loro le storie e le testimonianze di cosa sta succedendo, del cambiamento già avvenuto, loro già figli di una mobilità che li ha costretti a cambiare. E come sempre le reazioni dei Rimon saranno ben diverse: Emilia custodirà Hermann con dolcezza, ma senza cercare di conoscere né sapere cosa gli sia successo, mentre Alessandro si farà raccontare da Paula, nella loro lingua comune, il francese che diventa strumento di una consapevolezza clandestina, tutto ciò che hanno passato.
«Tuo padre non vuole che ti racconti di Vienna, ha paura che tu soffra troppo a sentire queste cose, che non ti faccia bene. E dicono che non fa bene neanche a me». Ma ormai il francese imbavagliato si era liberato da solo e Paula avrebbe continuato a parlare, se lo sentiva. Per Hermann era vero, il francese non lo aveva studiato, era troppo piccolo, meglio lasciarlo fuori da quei loro discorsi. Nella sua classe a Vienna un giorno la maestra aveva disegnato per terra una grande linea gialla, poi aveva chiamato uno per uno i bambini ebrei. I loro posti adesso dovevano essere lì, oltre quel segno, aveva detto. I compagni di classe attorno al braccio avevano la fascia rossa con la svastica, lo insultavano, lo spingevano, una volta gli avevano tirato un sasso sulla fronte, guardalo bene, il segno si vede ancora. A scuola i suoi non l’avevano più mandato. «E a te?». «A me è andata meglio. Ero in un istituto privato, ma è stato un caso, capisci? Solo un caso. L’inferno ha parecchi gradini, ma sempre di inferno si tratta. Cerca di mettertelo bene in testa, se vuoi che continuiamo a disobbedire a mio padre e al tuo».
Nello stesso modo in cui la realtà si ritrova a colpire la famiglia Rimon, chi legge si trova ad affrontare l’onestà di chi racconta una storia perché questa vuole essere raccontata. Non ci sono doveri, solo l’intento di mettere i fatti di fronte a chi prenderà quel libro tra le mani. Questa sera è già domani è scritto per Luciano Tas, marito di Lia Levi scomparso nel 2014 e con lei fondatore della rivista Shalom. Si scrive per comunicare. Si comunica per liberarsi dalle atrofizzazioni di una realtà che vuole scomporre e svuotare di senso ogni volontà e dinamica umana, dalla mancanza di empatia e comprensione, per offrire al lettore non un involucro vuoto, ma un messaggio vivido e sincero che gli permetta di capire che non ci sono solo frasi e significati irriflessi, ma realtà concrete, che brillano come la storia e la parola di fronte agli occhi di ognuno, come la medaglietta con la stella di David di Alessandro Rimon che alla fine colpisce anche gli occhi di sua madre per la prima volta.
Diletta Crudeli
Pubblicato nello Speciale Premio Strega 2018
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