Come le storie riprendono vita
Su Passaporti di Giuseppe Marcenaro, viaggio esoterico tra i fantasmi della letteratura
Passaporti, ultimo romanzo di Giuseppe Marcenaro (Il Saggiatore) è uno di quei libri che sfugge alle etichette, muovendosi su paralleli letterari diversi. Lo stesso termine romanzo è poco calzante, ma anche raccolta di racconti non riesce a ben esprimere la precisa mappa, fatta di storie e immagini, che l’autore è riuscito a tracciare. Passaporti sono quattordici città narrate da un viaggiatore, che coincide con l’autore, forse, ma sicuramente con lo spirito infiammato di un grande lettore. Ogni nuovo viaggio e ogni nuova scoperta sono vissute attraverso lo sguardo attento di chi sembra conoscere la città molto bene, come se l’avesse già visitata; sa benissimo dove scavare per rintracciare quelle memorie letterarie che hanno lasciato un’impronta precisa in mezzo al paesaggio normale. In pratica, fantasmi letterari. Per questo sfugge a una precisa collocazione. Non si tratta di un romanzo perché, per quanto ci si muova in zone geografiche molto differenti tra loro, non c’è una direzione precisa, alcuna bussola puntata, mentre considerarla una raccolta di racconti oscurerebbe la raffinata ricerca di Marcenaro. Una prova forse, un esercizio stilistico volto a riportare alla luce luoghi e volti sepolti nel passato: Rimbaud in Africa, il baule perduto di Benjamin, passando per Ibiza e per le vicende che coinvolgono sua moglie Dora Sophie Kellner all’Hotel Miramare a Sanremo, una nuova libreria a Genova, che il viaggiatore approccia come se si trattasse di un nuovo pianeta inesplorato. Volti letterari, spettri nuovi che incombono nelle città, direzioni prese in epoca passata che hanno portato a stravolgimenti nella storia.
Ho dovuto rinunciare all’idea di una mia nuova biblioteca d’affezione. Nonostante ciò, passo ogni giorno in libreria. Un’abitudine. Come facevo un tempo. Non puoi essertene dimenticato. Come allora ambirei a trovare nei libri l’anima del mondo. Mi dirai, rimproverandomi, che sono il solito. Che rimpiango chissà quale età dell’oro. Da sempre so che età dell’oro non ve ne sono mai state. Forse soltanto attimi in cui qualcuno era riuscito a catturare una scheggia in sintonia con il proprio modo di essere. Frammenti di un’epoca felice. Se noi li abbiamo vissuti, supponenti distratti, non ce ne siamo resi conto. E adesso, per trovare uno straccio di senso ai miei attuali giorni, dovrei imparare una lingua nuova, prendere confidenza con scrittori sconosciuti e con i romanzi del mondo che sono tutti capolavori e ognuno dovrebbe assolutamente leggere.
Il paesaggio non viene mai descritto esplicitamente; si tratta piuttosto di evocare le memorie abbandonate sul territorio, a metà tra il presente e il passato, nel quale il viaggiatore e i fantasmi hanno passeggiato. Cosa nascondono le città? Non si tratta di tesori sotterranei ma di nuove prospettive che devono riemergere, evocazione dopo evocazione. Il viaggiatore si muove dietro le città, scioglie i nodi che compongono i limiti imposti dalla memoria. Tra passato e presente, in città che sono custodi delle storie di un solo personaggio, mentre altre lo sovrastano portando con loro un immenso coro di voci. Le motivazioni che hanno spinto il viaggiatore nelle sue peregrinazioni non sono chiare. Parte spinto dalla bellezza e dal desiderio di conoscere le località o sono i fantasmi a chiamarlo? Sappiamo tuttavia da cosa si fa guidare: dai ricordi, permettendo che siano le voci a orientarlo, o lo spettacolo del presente persino, che lascia che quei fantasmi risultino ancora più cangianti. Ciò è palese quando visita il Nido dell’Aquila, lo chalet che Hitler fece costruire a Obersalzberg, in Baviera. Un luogo ameno che ha conservato tutte le caratteristiche e i dettagli che possedeva al tempo del Führer. I veri fantasmi che emergono dalla scena sono due in questo caso. Il primo è quello dell’ascensore originale, utilizzato da Hitler in persona, che porta lo spettatore in cima alla fortezza collocandolo lontano nel tempo. L’altro è quello che si accalca fuori, nel presente, nella massa informe di turisti.
I turisti sui pullman compiono un curioso pellegrinaggio. Il «santuario» ha l’orrorifica spettacolarità della bellezza assoluta, senza però l’ombra degli augusti interpreti che, giurerei, occhi inquieti di qualcuno della folla variopinta carica di macchine fotografiche, spiando in tralice, cerca di intravedere nello squadernarsi delle alpi bavaresi. Con berrettino blu e visiera istoriata con l’edelweiss, un anziano tedesco, forse antico accolito della Hitlerjugend, viene da queste parti a scoprire il teatro di un mito.
Sebbene non ci sia una motivazione esplicita, c’è comunque una conseguenza al suo viaggio. Le sue stesse peregrinazioni ormai hanno lasciato una nuova traccia, un nuovo immaginario che si intreccia e arricchisce quello del passato. Del resto chi esige sempre nuove manifestazioni di un tempo andato deve continuamente interrogarsi sulle possibilità che il mondo gli offre: dove può scovare qualcosa di nuovo? Cosa gli è possibile rivelare? Così si passa da una città all’altra, affidandoci al viaggiatore, credendo nel suo talento nello scovare storie che spesso sembrano impossibili da credere. Questi riesce, evocando quei fantasmi e tratteggiando giusto il necessario all’interno del paesaggio, a far sì che il lettore venga alla fine travolto da tutte le storie che sgorgano dietro a ogni vicolo. Il linguaggio è perfettamente misurato, l’attenzione è tutta incentrata su ciò che conta: il luogo, senza orpelli, e gli uomini. Da qui un labirinto, continue associazioni che trascinano chi legge prima a Berlino e poi a Tirana, poi nelle Cinque Terre.
Le fotografie disseminate nel testo sono l’anello mancante, la bussola che permette al lettore di puntellarsi in questo girovagare. Completano la narrazione, integrano quelle sfumature, quei dettagli che permettono allo spazio e al tempo di assumere una forma precisa. Osservando, tra le parole e nelle immagini, si può scovare sempre qualcosa, così che tutto sia sempre nuovo eppure allo stesso tempo atteso e riconoscibile. Bisogna, come fa il viaggiatore, lasciare che la storia ci attragga. Una volta raggiunto il luogo giusto scendere nei sotterranei, sondarne le possibilità e cominciare a leggere ciò che ha da dirci, per poi raccontarlo di nuovo; perché sì, il lettore finale sarà costretto a raccontare di nuovo e a visitare di nuovo quei luoghi, letterariamente o meno, per scoprire se alcune storie sono vere, come quella del dentista di Taranto che esegue riparazioni con lamine d’oro del periodo ellenico.
Bisogna, come fa il viaggiatore, lasciare che la storia ci attragga
In quest’opera Marcenaro porta avanti quella ricerca letteraria che esplora sia storie meravigliose che racconti dimenticati, in una sorta di riscoperta archeologica. Riemergono segreti, ricordi e aneddoti, così come in Scarti (Il Saggiatore, 2017) dove, seguendo in quel caso un ordine cronologico, al lettore venivano offerti cimeli come biglietti, cartoline o oggetti capaci di rievocare un grande personaggio letterario. Là le vesti del narratore erano quelle del collezionista, che si beava nel rintracciare oggetti apparentemente banali o reperti rari. Si tratta di esercizi di memoria, una rinuncia alle storie nuove per raccontare quelle che hanno già vissuto e che sono sepolte da qualche parte; una ricerca volta a rintracciare tutte le stratificazioni, tutti i collegamenti e i nessi che rendono possibile la letteratura. Qui in Passaporti si presenta il teorema principale di questa visione: la letteratura è tutta composta da fantasmi, storie che permangono in ogni luogo, infestandolo per raccontarsi ancora.
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