Come le metafore possono aiutarci a superare la pandemia
La malattia può essere un portale verso un mondo nuovo, tra Susan Sontag e Virginia Woolf
Una di queste sere stavo discutendo online con il mio amico Peter, medico di base a Edimburgo dove entrambi viviamo, di come sia stato lavorare durante la pandemia. Peter ama la poesia (al punto da usarla a lezione coi suoi studenti di medicina), così ha iniziato a riflettere sulle metafore e in particolare sono state le metafore militari sugli operatori sanitari impegnati in “prima linea” a “combattere” un “nemico invisibile” a infastidirlo. «Gli operatori stanno solo facendo del loro meglio in condizioni difficili», ha detto. «Abbiamo bisogno di nuove metafore per consentire alle persone di prendere le giuste decisioni in tempo di crisi».
La scorsa settimana Peter ha discusso a lungo con i suoi pazienti più anziani di come vorrebbero procedere nel caso in cui si ammalassero e fossero costretti a respirare tramite un ventilatore polmonare. Una volta intubati, alcuni potrebbero non riuscire mai più a respirare in autonomia. «Sono conversazioni importantissime ed è un privilegio farne parte. Il linguaggio militare non aiuta affatto».
In Malattia come metafora: cancro e aids, Susan Sontag sostiene che malattia e metafora abbiano una lunga e ambigua storia in comune. Molte malattie del diciannovesimo secolo erano viste come l’espressione di un carattere subnormale o persino, se arriviamo al mondo classico, come giudizio divino. Anche ai nostri tempi rendere la malattia un simbolo ha causato incomprensioni e dolore, allontanando il malato dalle terapie adeguate e incoraggiando chi preferisce sottovalutare il problema. Per settimane Trump ha parlato del “virus cinese” come se fosse una minaccia localizzata, nascondendo il fatto che il Covid-19 si stava diffondendo tra gli americani che non avevano viaggiato all’estero. In un articolo pubblicato dal New Yorker mentre gli Stati Uniti entravano in lockdown, Paul Elie si lamentava del fatto che «affascinati dal virus come metafora e dai termini a esso associati – trasmissione, diffusione, portata, distanziamento sociale – abbiamo smesso di stare all’erta». Le eco dei trionfi militari del passato durante la giornata della vittoria hanno portato molti in Inghilterra a interrompere l’isolamento per scendere in strada a festeggiare, come se volessero identificare il virus con un nemico riconoscibile e annientabile.
«La maniera più sana di essere malati», suggeriva Sontag, «è quella più libera da pensieri metaforici e ad essi più resistente»
Dire che abbiamo bisogno di nuove metafore potrebbe quindi sembrare una mossa azzardata da parte del mio amico. «La maniera più sana di essere malati», suggeriva Sontag, «è quella più libera da pensieri metaforici e ad essi più resistente». Ma questo sottovaluta il ruolo che gioca la metafora nell’aiutarci a trovare il senso a un mondo che ci è fondamentalmente mutato attorno. Il termine deriva dall’espressione greca che significa trasportare. Le metafore creano significato sostituendo un termine a un altro. Da quando è arrivata la pandemia ci siamo tutti ritrovati trasportati in una nuova realtà, col mondo che conoscevamo rimpiazzato da uno che gli assomiglia pur essendo radicalmente cambiato.
Sette giorni prima che l’intero Regno Unito entrasse in lockdown, la mia famiglia ha deciso di auto-isolarsi. Nessuno di noi apparteneva a categorie particolarmente a rischio, però a mia moglie era venuta la tosse e ci è sembrato giusto presumere che il virus stesse circolando in casa. Rimaneva il dubbio: i sintomi sono progrediti fino a includere difficoltà di respirazione, spossatezza e perdita del gusto e dell’olfatto, ma mai la febbre; nessun altro in casa ha mai avuto sintomi di alcun tipo. Si è ripresa, ma per settimane rimaneva subito senza fiato qualsiasi cosa facesse. L’aveva preso o no? E noi l’avevamo in qualche modo fatta franca o eravamo soltanto asintomatici? Sontag scrive che «tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno della malattia e in quello della salute». Ma la natura di questo virus, i cui sintomi compaiono solo molti giorni dopo il contagio e che infetta alcuni senza manifestarsi, ci rende incapaci di capire in quale territorio abitiamo. In assenza dei sintomi più gravi o dei risultati di un test affidabile, la prospettiva di contrarre o trasmettere il Covid-19 ci sposta continuamente tra opposte realtà.
Da quando la mia famiglia ha deciso di isolarsi abbiamo vissuto contemporaneamente nel regno della malattia e in quello della salute
Da quando la mia famiglia ha deciso di isolarsi abbiamo vissuto contemporaneamente nel regno della malattia e in quello della salute. Le condizioni della nostra doppia cittadinanza implicano che, per essere un bravo cittadino di entrambe, dobbiamo immaginarci già malati. Quando mia moglie stava male io prestavo molta attenzione a ogni pizzicore alla gola e ogni colpo di tosse dei bambini, sempre pronto a interpretare qualsiasi sintomo alla luce della somiglianza con quei sintomi. Da quando si è ripresa persistiamo in uno stato di contraddizione, come se esistesse un’altra realtà dietro a quella in cui viviamo. Quando anche il semplice gesto di toccarsi il volto potrebbe condurre a conseguenze nefaste non possiamo che interpretare i nostri gesti in maniera metaforica. La nostra stessa esistenza diventa una metafora: dobbiamo continuare a comportarci come se avessimo il virus, a prescindere da come ci sentiamo.
Nel suo saggio Dell’essere malati, Virginia Woolf scrive che per le persone malate il mondo è alterato: «Il mondo ha cambiato di forma; gli utensili del mestiere si sono fatti remoti, i suoni della festa sono diventati romantici come una giostra che si senta oltre i campi». Ma quella che un tempo era la provincia dei malati è diventata quella che abitiamo tutti. Le strade e gli edifici sono vuoti, non c’è traffico in cielo. La forma delle nostre giornate è cambiata. Siamo a casa, nel più familiare dei luoghi, ma una nuova vita ha sostituito la vecchia.
La malattia, dice Woolf, ci fa scoprire «paesi sconosciuti». Il paese sconosciuto del mio auto-isolamento non è stato meno ricco per il solo fatto di essere ordinario e comune. Ci sono stati grandi sforzi e litigi, ma abbiamo imparato ad abitare nuovi ritmi. Ho osservato con gratitudine i miei figli adattarsi a un cambiamento improvviso. C’è stato anche cordoglio, per com’era la vita, e un’opportunità mancata per piangere i morti, dato che non sono potuto andare al funerale di mia nonna. Eppure, insieme, abbiamo cominciato a ricreare le nostre giornate partendo da risorse più esigue.
Piano piano, abbiamo iniziato ad abituarci alle limitazioni del lockdown. Ma a un certo punto l’isolamento sociale finirà e ci ritroveremo trasportati un’altra volta in un mondo che assomiglia a quello che conoscevamo, ma che è fondamentalmente cambiato. Già adesso alcuni paesi stanno cominciando a uscire dal lockdown, in altri la risolutezza comincia a logorarsi; eppure un vaccino, ci dicono, potrebbe non arrivare prima di anni. La vita pubblica potrebbe riprendere soltanto a intermittenza, mentre entriamo e usciamo da periodi di isolamento. Per superare questa situazione potremmo fare cose ben peggiori che riflettere sulla metafora e la strana sensazione di stare in bilico fra due mondi.
Pensarci come possibilmente malati – in bilico fra il regno della salute e quello della malattia – ci permette di andare oltre ciò che sappiamo ed entrare nelle esperienze altrui
Woolf pensa che la malattia ci faccia rivolgere al nostro interno, separandoci da «comuni bisogni e paure». Ma i bisogni comuni e le paure ci stringono assieme ora più di quanto sia mai successo nella storia. Pensarci come possibilmente malati – in bilico fra il regno della salute e quello della malattia – ci permette di andare oltre ciò che sappiamo ed entrare nelle esperienze altrui. Questa abilità sarà fondamentale per vivere nei tempi incerti a venire, per evitare un altro picco mortale, e se vogliamo che il mondo post-pandemia non ripeta gli errori del mondo che ha sostituito.
Forse, a prescindere da Sontag, la metafora può essere un modo sano per affrontare la pandemia e quello che seguirà. In un recente articolo pubblicato sul Financial Times, Arundhati Roy, proprio come il mio amico Peter, si è scagliata contro i leader globali che sfruttano le metafore di guerra in tempo di crisi. La pandemia è «un portale», scrive, «una via d’accesso tra un mondo e il successivo». La scelta, dice, sarà tra un mondo che conosciamo e uno che dobbiamo ancora immaginare. La metafora è una sfida alle nostre immaginazioni. Ci chiede di lasciare andare il nostro sistema di pensiero e accettare un nuovo modo di vedere le cose. Ogni metafora ci offre una scelta: possiamo concentrarci su quello che unisce le sue due parti o su quello che le divide. Abbracciare le possibilità che troviamo nella metafora può aiutarci a fare un passo dal vecchio mondo al mondo migliore in cui tutti speriamo.
David Farrier ha scritto Anthropocene Poetics: Deep Time, Sacrifice Zones, and Extinction (2019) e Footprints: In Search of Future Fossils (2020) e insegna letteratura all’Università di Edimburgo. Questo articolo è stato pubblicato su Literary Hub il 15/05/2020 ► With Apologies to Susan Sontag, We’re Going to Need Metaphor to Get Through This Global Illness
Traduzione di Francesco Cristaudo
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