Coito ergo sum
L'uomo attraverso la sessualità nel cinema di Oshima, Ozon e Bertolucci
Coito ergo sum scrive il regista Dino Risi, con sottile ironia, nel suo libro Vorrei una ragazza. Epigrammi e aforismi rivisitando la locuzione cartesiana che invece vedeva nel pensiero la chiave di lettura dell’uomo e la sua imprescindibile caratteristica. Ma quelli erano altri tempi – quelli di Cartesio – non c’era stata la psicanalisi, la globalizzazione, il consumismo, l’omologazione, la sociologia e la filosofia non si erano spinte oltre le loro colonne d’ercole e il cinema non era stato inventato. Dino Risi ci dà l’imbeccata collegandosi a quello che anche lo psicanalista e sociologo tedesco Erich Fromm era arrivato a pensare, ossia che nell’atto sessuale si svela l’uomo, il suo carattere. In quella azione c’è il nostro sum. La rivoluzione del pensiero sta nell’azione e in quell’azione così primordiale e arcana che l’uomo è ed è qui che il cinema entra in scena con il suo occhio a sottoporci – se attentamente guardato – una nuova rilettura della realtà umana attraverso la sessualità.
Nagisa Oshima, François Ozon, Bernardo Bertolucci tre registi che al centro della loro poetica hanno sempre posto la sessualità come strumento d’indagine dell’umano. Oshima compie un lavoro di svelamento dei tabù interrogandosi sui generi sessuali che mette sotto la lente di ingrandimento del cinema. Ne Il demone in pieno giorno (1966) il regista ci trasporta prima nell’universo maschile del protagonista svelandoci i sadici tabù che vedono la donna come vittima e in Ecco l’impero dei sensi (1976), ispirandosi ad un fatto di cronaca avvenuto negli anni Trenta in Giappone, pone al centro il punto di vista femminile scandagliando i codici dell’universo sessuale conosciuti o proposti finora. Ed è qui, attraverso un excursus sessuale della coppia o meglio della donna protagonista, che collega la sessualità ad una più profonda consapevolezza del sé. La protagonista, Abe Sada, dopo il suo incontro con Kichi, il padrone della casa dove si è recata a prestare servizio, apre completamente e finalmente quel vaso di pandora legato alla sessualità che sarà il ponte d’accesso al suo vero Io, alla sua vera natura di donna, alla sé bambina. Qui avviene un ribaltamento dei ruoli che pian piano, nella struttura episodica del film, si delinea mantenendo come principale protagonista la donna e non l’uomo. Dopo qualche campo lungo iniziale la macchina da presa di Oshima si concentra sullo spazio delimitato dai corpi degli amanti che si isoleranno dal mondo esterno, diventando l’unico mondo possibile. Ogni quadro creato da Oshima riprende gli shunga, le stampe erotiche giapponesi del ’700, passando per la letteratura francese di Bataille. Nei testi dello scrittore Eros e Thanatos erano presenti ma più ragionati, mentre qui troviamo la primordiale ricerca di un’Io femminile che va oltre l’idea di nascita e morte, che in Giappone hanno un significato ben diverso da quello occidentale. Nella teatralità della messa in scena è centrale lo scambio delle parti, che vede l’uomo passare dal ruolo del padrone a quello dello schiavo d’amore e lo sguardo della donna diventare protagonista. In questo coito a ripetersi femminile spesso sono presenti altri sguardi che sbucano dietro i pannelli scorrevoli delle stanze via via occupate dai due amanti, e sono gli sguardi delle geshei chiamate a suonare i loro strumenti mentre i due fanno l’amore o delle cameriere spesso coinvolte, con o senza consenso, nell’amplesso amoroso. La sessualità viene sempre guardata, mentre chi fa l’azione ha lo sguardo rivolto a se stesso. Lo sguardo del regista invece, attraverso la storia al femminile, avvolge la totalità e non frammenta le immagini, non inquadra i dettagli. Così Abe ingloberà anche l’amato nel suo mondo e infine, per raggiungere un piacere più grande e raggiungersi, lo strangolerà, e dentro di se porterà il suo membro evirato rinascendo nel rifiuto quel doppio suicidio d’amore ammesso dal codice giapponese.
Generi sessuali – quello maschile, femminile e dell’ibrido – che in Ozon sono ancora alla ricerca di una propria identità. La sessualità nel cinema del regista francese diviene chiave di volta per svelare l’uomo-personaggio e renderlo conoscibile a se stesso. Amore e Morte spesso camminano insieme nell’adulta adolescenza dei personaggi di Ozon sempre in conflitto tra l’essere e l’apparire, in bilico tra realtà e finzione. La sessualità nei suoi film è sempre in evoluzione, va oltre il conosciuto, il dato dalle convenzioni della nostra società. Il suo ultimo lavoro, Una nuova amica (2015) è un film transgender – come il protagonista David – mescola insieme il melodramma, il thriller psicologico, la commedia. È tutto e niente, ma sicuramente una storia di liberazione, liberazione da quella parte di sé che non appartiene al protagonista. David, successivamente alla perdita della moglie, porta fino in fondo il percorso di svelamento della propria identità uccidendo metaforicamente la sua parte maschile per rinascere nei panni di Virginia. Con leggerezza, ironia dai contorni melò viene portata sullo schermo una storia contemporanea che parla di come l’identità sessuale non ci venga consegnata alla nascita dalla società in cui viviamo ma rappresenta un percorso individuale che svela le diversità intrinseche a noi stessi. La storia di David si intreccia a quella della migliore amica della moglie defunta – da sempre platonicamente invaghita dell’amica – si innamorerà del David donna e attraverso lui/lei ritroverà la sua parte femminile fino a quel momento quasi repressa. Accettare le proprie pulsioni, i propri desideri è il primo passo verso la felicità. Visionario ma con i piedi piantati per terra Ozon, mediante una struttura classica ed esteticamente perfetta, fluido nella narrazione, ci narra delle possibili nostre evoluzioni.
In Bertolucci quel riuscire ad essere se stessi e esserlo liberamente, grazie alla sessualità, diviene l’unico modo per Essere oltre la storia, oltre il conformismo. La rivoluzione è dentro di noi ed è quando i suoi personaggi si trovano davanti a cambiamenti forti e imprevedibili che inizia la lotta interiore. Come in Ultimo tango a parigi (1972) in cui il protagonista Paul/Brando, un americano trapiantato a Parigi per amore, dopo il suicidio della moglie vaga per la città in cerca di quel se stesso perso da tempo incontrando la ventenne Jeanne/Maria Schneider. I due si incontrano in un appartamento andato a visitare per caso e da subito diventano amanti, portando avanti una conoscenza basata sul qui e ora dei loro corpi, dei loro Io più veri, lasciando fuori dalla stanza i loro nomi e i percorsi di vita. Già dai titoli di testa si dà importanza al guardare con la presentazione dei personaggi nelle metafore pittoriche di Bacon, i colori delle tele nello stesso tempo caldi e cupi li ritroveremo durante il film nelle scene di interni di cui la maggior parte della pellicola è composta. Nella fredda e caotica città ci viene presentato Brando con una soggettiva che sottolinea il suo disperato urlo munchiano. Bertolucci entra così nella psicologia dei personaggi, segue con la macchina da presa gli sguardi e i corpi che giocano con gli spazi. I freddi colori della città seguono il personaggio di Paul negli spazi da lui riempiti, spesso in ombra come lo è la sua anima – in ombra a se stesso – mentre Jeanne che sta formando il suo carattere vive ancora dei colori caldi e familiari dell’infanzia. Ma la rivoluzione non è possibile se prima dentro di noi non accettiamo il cambiamento, e Paul infine accetta se stesso e il cambiamento decidendo di amare Jeanne dentro e fuori la storia. Il personaggio femminile invece no, è ancora in bilico tra il passato e il presente da analizzare e solo con l’uccisione del padre, ossia dell’amato ucciso subito dopo che aveva indossato il cappello del padre di Jeanne, potrà diventare adulta e adeguarsi a quella realtà in cui ha deciso di vivere.
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