Cinecittà - Il compleanno della fabbrica dei sogni
La storia di un sogno e il fantasma di un incubo
Quando nel settembre 1935 un incendio distrugge due dei tre teatri della Cines, nei quali si realizzava metà della produzione cinematografica italiana, il direttore generale per la cinematografia Luigi Freddi convince il finanziere Carlo Roncoroni, che guidava il reparto produttivo della società, della necessità di un’impresa all’avanguardia con studi più grandi e attrezzati, garantendogli sussidi in cambio di una forte partecipazione del capitale pubblico per possederne il controllo statale. Il complesso di studi cinematografici, simbolo di grandi ambizioni di regime, prende il nome di Cinecittà.
Inizialmente propensi alla costruzione degli studi nella periferia – il quartiere di Centocelle – si verte sulle aperte campagne di via Tuscolana, in zona Quadraro, ancor più lontana dal centro. L’architetto Gino Peressutti, classe 1885, sviluppa un progetto imponente: 73 edifici di sobrio razionalismo, di cui 14 teatri di posa, costruiti su 14 ettari in cui, sull’esempio statunitense già testato negli innovativi studi di Tirrenia l’anno precedente, si raccoglie verticalmente l’intero sistema produttivo, dal soggetto alla stampa della pellicola.
La posa della prima pietra, il 29 gennaio 1936, è una conquista del regime fascista. Forte di un’ammirevole padronanza del sistema mediatico, Mussolini dà il via ai lavori della città del cinema con lo slogan: “La cinematografia è l’arma più forte”, concependo nella stessa area la sede del Centro Sperimentale di Cinematografia e, sulla scia del motto Dux mea Lux, la nuova sede dell’Istituto Luce. Quindici mesi dopo, il 28 aprile 1937, al fianco di via Tuscolana sorge ufficialmente Cinecittà, «un nuovo moderno centro di operosità fascista».
Nella primavera del 1938 i teatri di posa sono soltanto cinque e l’effettiva produzione è ancora in lenta crescita: 19 le pellicole girate nel 1937 e 31 nel 1938, due terzi dell’esigua produzione italiana. I primi anni Quaranta, con l’accelerazione delle costruzioni, imprimono una svolta che porta il numero dei teatri a dodici e dei film prodotti al record assoluto di cinquantadue. La frenetica attività cinematografica fa convogliare attori e attrici di varietà e teatro dando vita ad uno star system di cui proprio un convoglio diviene simbolo: Il tram delle stelle, viene soprannominata la linea Termini-Quadraro che arriva fino a Cinecittà.
La grandezza artistica e la fama mondiale degli studi si deve, paradossalmente, anche alle operazioni del regime di sventramento nel centro storico, che sconvolgendo i vari rioni avevano costretto migliaia di esperti artigiani senza casa e senza lavoro nelle borgate di periferia. Cinecittà poté perciò attingere, nella campagna circostante, ad una fucina unica di stuccatori, falegnami, pittori la cui grande preparazione, maturata nelle botteghe artigiane, nei cantieri delle chiese, nei laboratori di restauro si realizzò nelle scenografie dei set cinematografici, fornendo una capacità di costruzione dell’immaginario forse unica al mondo.
Il 25 luglio, con il rovesciamento del regime e l’arresto di Freddi, Cinecittà si paralizza a tal punto che l’8 settembre, al momento dell’armistizio e dell’occupazione tedesca, soltanto quattro pellicole sono in produzione. Con l’abbandono delle strutture gli studi soffrono un duro autunno, saccheggiati dai ladri e dai tedeschi, che in ottobre caricano le attrezzature rimaste in sedici vagoni. Liberato nel frattempo, lo stesso Freddi ne recupera dieci, imbastendo a Venezia un sostituto della città del cinema su ordine della Repubblica di Salò. Il Cinevillaggio, così viene chiamato, è costituito da tre teatri di posa e riesce a produrre, nell’arco di un anno e mezzo, solamente quattro film prima della liberazione della città avvenuta il 26 aprile. Quattro giorni dopo, la fucilazione delle star Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, che avevano seguito Freddi negli stabilimenti dell’ex Repubblica Marinara, chiude il buio e paludoso capitolo del cinema di Salò.
Magazzini tedeschi prima e alleati poi, gli studi servono da rifugio per seimila profughi accampatisi alle porte di Roma all’arrivo dei nazisti. Il ripristino delle strutture è faticoso, con tutta l’Italia del dopoguerra anche Cinecittà lotta per rialzarsi. Le attrezzature ritornano da Venezia, ma il restauro degli impianti durerà fino a metà degli anni Cinquanta ed inizialmente è solo grazie a produzioni e co-produzioni estere che la “fabbrica dei sogni” può rimettersi in piedi. L’iniziativa di Blasetti di aprire alla Francia porta a Roma registi del calibro di René Clair con La bellezza del diavolo e l’annuncio delle riprese di Quo vadis? di Mervin Le Roy negli stabilimenti dà il via ad una lunga serie di pellicole statunitensi tra cui i kolossal, ‘sandaloni’ per gli addetti ai lavori, per cui la città del cinema divenne famosa nel mondo: Elena di Troia di Wise, Ben Hur di Wyler, Cleopatra di Mankiewicz e La caduta dell’impero romano di Mann.
Cinecittà si afferma come Hollywood sul Tevere grazie alle grandi produzioni americane ma soprattutto per l’eguale capacità del cinema italiano di parlarsi addosso. Luchino Visconti con Bellissima e Dino Risi con Il viale della speranza – il viale è proprio la via Tuscolana che collega il centro di Roma agli studi – aprono una stagione di ambientazioni e riferimenti metacinematografici consacratasi, e Fellini ne era un maestro, nella dolce vita che tutti conosciamo.
Il mito del cinema muta in spettacolo mentre i peplum e gli spaghetti western fanno la fortuna commerciale di Cinecittà, dove dal 1965 con Per qualche pugno di dollari si apre il filone più prolifero della sua storia. Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, Novecento e L’ultimo imperatore di Bertolucci, C’era una volta in America di Leone sono soltanto alcuni dei gioielli che prendono vita a Cinecittà, cui si lega indissolubilmente l’affetto e il genio di Federico Fellini, che a partire da Amarcord vi realizza tutti i suoi film chiudendo con il malinconico commiato di Intervista.
Dalla fine del decennio Ottanta, in cui il calo produttivo impone l’apertura alle produzioni televisive ma anche una modernizzazione degli impianti, Cinecittà saluta il ritorno statunitense dopo una pausa durata vent’anni: Le avventure del barone di Munchausen di Gilliam, Il padrino ‒ Parte terza di Coppola e soprattutto Gangs of New York di Scorsese, le cui fastose scenografie firmate Dante Ferretti vi resistono in parte da un decennio.
Ma la grandezza di un tempo sembra perduta, smarrita nell’eterna recessione dell’Italia degli anni Duemila, nella sterilità immaginativa, produttiva e distributiva di un paese con poche idee. The Third Person, l’ultimo film di Paul Haggis girato negli Studios romani, somiglia più ad un vezzo d’autore che ad un segnale di rinascita, e lascia poco spazio ad una speranza di un ritorno a stelle e strisce. Gli scatti della mostra di Gregory Crewdson poi restituiscono una realtà deserta, desolante, immortalata (trovata e resa morta) nella sua inarrestabile decadenza. Sanctuary, il titolo: santuario, un luogo sacro che una disinteressata dirigenza vuole trasformare in un parco giochi di cartapesta. E mentre un luogo di culto da cui dovrebbe scaturire la viva preghiera si tramuta in una sterile contemplazione d’icone, la testa del Casanova riposa all’ingresso.
«L’hanno definita la fabbrica dei sogni: un po’ banale, ma anche vero», diceva Fellini. «È un posto che dovrebbe essere guardato con rispetto, perché al di là di quel recinto di mura ci sono artisti dotati e ispirati che sognano per noi». Purtroppo, in questo momento, l'Italia sembra aver perso la voglia di sognare.
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