Chi possiede un’immagine?
Su Feels Good Man e la lotta per i diritti di Pepe The Frog, il personaggio simbolo dell’alt-right e di Trump
A Firenze, nell’edizione 2021 del festival Lo schermo dell’arte, si è tenuta la prima italiana del film di Arthur Jones Feels Good Man. Il documentario affronta la drammatica vicenda del fumettista Matt Furie, creatore del personaggio Pepe The Frog, protagonista della sua pubblicazione Boys’ Club. Pepe The Frog, che tutti conoscono anche senza saperne il nome, diventò un meme agli albori di internet, nell’era di 4chan, e nel corso degli anni si è tramutato in un simbolo dell’alt-right statunitense contribuendo a diffondere messaggi d’odio, misogini o antisemiti, e finendo addirittura per influenzare la campagna elettorale del 2016 che ha visto la vittoria di Donald Trump. Un tipico caso, sembrerebbe, di creazione che sfugge alle volontà e alle idee del suo creatore venendo manipolata da altri. Raramente Furie ha potuto vantare concreti successi nella lotta all’abuso del suo “marchio”, finito a rappresentare messaggi che non gli appartengono. Per quanto possa apparire un’ingiustizia, la vicenda ci spinge a riflettere sulla cultura dei meme e sulla debolezza dei concetti estetici e giuridici di ‘autore’ e ‘copyright’ (e politiche annesse) nell’era del web. Quello degli utenti anonimi su 4chan è un abuso? E Furie ha diritto a rivendicare l’esclusivo utilizzo del suo personaggio iconico?
Il personaggio di Pepe The Frog, negli anni tramutatosi in un simbolo dell’alt-right statunitense contribuendo a diffondere messaggi d’odio, misogini o antisemiti, è un tipico caso di creazione che sfugge alle volontà e alle idee del suo creatore
La risposta alla prima domanda è no, a meno di non voler ricorrere a teorie sull’autorialità ferme agli inizi del secolo scorso, come minimo precedenti al noto lavoro di Benjamin sull’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Il problema è semmai nel tipo di uso che i troll e gli adepti dell’estrema destra fanno dell’immagine: non l’utilizzo in sé, ma il contenuto del messaggio propagandato. Ragion per cui Pepe The Frog è stato ufficialmente inserito dalla Anti-Defamation League nella lista dei simboli di odio, con scorno e rammarico di Furie che da allora non si è dato pace – come racconta il film – lottando perché il verdetto venga rovesciato.
C’è da chiedersi se il Pepe dell’alt-right sia davvero lo stesso di Furie. In un certo senso no. O meglio: la figura è la stessa ma solo l’occorrenza (o la “copia”) disegnata direttamente da Furie è sotto il suo controllo. Tanto è vero che Pepe sopravvive alla morte che gli somministra il fumettista per sottrarlo al potere memetico. Fin dai tempi di Sherlock Holmes è chiaro che un personaggio, specie se iconico, può sfuggire al controllo del suo creatore e sopravvivere alla sua morte o perfino alla morte da lui decretatagli. Emblematici, come lo furono per il personaggio di Arthur Conan Doyle, gli scontri tra J.K. Rowling e i fan di Harry Potter, che si sentono proprietari dell’universo creato dalla scrittrice inglese e ritengono che lei non abbia il diritto di cambiarne neanche una virgola.
E Furie ha diritto a rivendicare l’esclusivo utilizzo del suo personaggio iconico? La risposta a questa seconda domanda è invece parzialmente positiva. L’autore può rivendicare solo ciò che gli concede il diritto della proprietà intellettuale, che è ben poca cosa in un’epoca sommersa dalla proliferazione anonima di opere derivate, gratuitamente diffuse. Un corollario che permette di spiegare meglio queste dinamiche, compreso l’esempio della saga di Harry Potter, è racchiuso nel mondo delle fandom.
Il Pepe dell’alt-right è davvero lo stesso creato da Matt Furie? E Furie ha diritto a rivendicare l’esclusivo utilizzo del suo personaggio iconico?
Come spiegano Stefano Calabrese e Valentina Conti nel loro Che cos’è una fanfiction, l’universo dei fan si è appropriato dei prodotti artistici portando alla naturale conseguenza logica l’assunto per cui l’industria culturale lavora per il pubblico. Perciò il pubblico ritiene di poter disporre degli oggetti che compra come vuole, siano anche oggetti astratti. E lo fa diventando un prosumer, vale a dire un fan che vuole ampliare l’universo simbolico della creazione, anche discostandosi o sovvertendo le intenzioni del creatore originario, senza scopo di lucro. Quello che permette il verificarsi di episodi estremi come il caso Pepe the Frog è l’estraneità delle opere derivate del web dalla logica del mercato per sostituirvi la cosiddetta gift economy. Ecco perché Furie può ottenere giustizia solo querelando coloro che vendono prodotti con l’immagine di Pepe the Frog (come è successo contro il sito di estrema destra ), mentre non può ottenerne da chi utilizza e ricrea su 4chan lo stesso meme (e questo prescinde dal problema dell’anonimato). Ecco perché se uccide il suo personaggio uccide solo il suo fumetto e non il simbolo, che più non gli appartiene.
La sospensione dello statuto privilegiato dell’autore ha quindi effetti di espansione della creatività e dell’esperienza artistica, in cui un’immagine o un testo vengono fagocitati, replicati all’infinito e modificati creativamente, diventando ingranaggi della cultura pop e contribuendo alla formazione di una vera e propria comunità (o “soggettività collettiva” come dicono Calabrese e Conti); ma ha anche di conseguenza e di converso effetti di dissipazione anarchica del prodotto, che può servire a tutto, compreso a diffondere propaganda nazista. La verità è che l’uso di Pepe the Frog per rappresentare hippie e pacifisti è legittimo quanto l’uso di chi lo trasforma in un personaggio incel e perfino in un adepto di Goebbels. Legittimo almeno dal punto di vista culturale, e da quello del diritto intellettuale, finché tale materiale resta gratuito. Il diritto al copyright di Furie è minuscolo di fronte alla potenza dell’immaginario, potenza che vale su entrambi i versanti: quello degli estremisti di destra nell’attribuire un significato a Pepe the Frog sottraendolo al potere del suo creatore; quello della società civile nel denotare un’immagine solo nel suo significato maggioritario, come certifica la decisione dell’Anti-Defamation League che ha appunto carattere descrittivo e non normativo.
Ciò appare chiaro nella scena in cui Furie riesce ad ottenere un colloquio con un rappresentare della Ong con l’intento di depennare la sua rana dalla lista dei simboli di odio. La risposta è perfettamente logica ma di primo acchito sconcertante per l’artista: la ADL non può negare la realtà solo perché non conforme alle intenzioni originarie di un fumettista; sarebbe altrettanto assurdo che un’associazione buddhista chiedesse di rimuovere la svastica dalla lista dei simboli di odio antisemita per via delle sue antiche connotazioni religiose. L’estrema destra ha d’altronde una lunga storia di uso di immagini e mitologie pre-esistenti, spesso deformate dai significati di partenza: oltre la svastica gli esempi sono innumerevoli, a partire dalla macelleria attuata sulla poetica di Tolkien. Analogamente se scoprissimo che Conan Doyle non voleva fare del suo detective un simbolo del pensiero razionale a poco servirebbe: la realtà ormai è quella. Questo perché le immagini (e gli immaginari) ci governano e direzionano, oggi più che mai. I meme come Pepe The Frog sono emblematici in questo senso.
Il termine “meme” nasce dalla teoria di Richard Dawkins sulla evoluzione culturale e – a prescindere dal giudizio su di essa – ha dimostrato di valere quantomeno per sé stessa: la parola “meme” è diventata un meme e i meccanismi tramite i quali i “meme” del web si replicano e “sopravvivono” sono proprio quelli che Dawkins ha ipotizzato in merito ai prodotti culturali in genere. Meccanismi che in sostanza descrivono le modalità di propagazione e proliferazione delle conoscenze e delle credenze da persona a persona, risultando gli equivalenti culturali delle funzioni dei geni nella evoluzione biologica. Una volta che una variazione del meme originario si è diffusa capillarmente diventa memetica anch’essa (da “Pepe The Frog” a “Pepe The Nazi” con tanto di baffetto) in un processo inarrestabile e ingovernabile dal singolo individuo.
L’evoluzione culturale in realtà non replica un’intera struttura ma solo lo scheletro. I meme sono divertenti e si diffondono con più facilità quando variano su uno schema grafico (o verbale) riconoscibile e già assimilato. Nel caso di Pepe sono i pochi tratti grafici e la sua frase feels good man ad essere connotazioni abbastanza vaghe da permettere una infinità di possibili “nuove” reiterazioni (tra cui kill all jews man). A maggior ragione non si può possedere lo scheletro di un oggetto astratto e se si può, come nel caso di un romanzo, le variazioni non è detto appartengano all’autore (ancora una volta il mondo delle fandom è un perfetto esempio). La cultura, dal punto di vista memetico, è per definizione priva di autori e proprietari. Cambiare il destino di un meme può voler dire, quindi, cambiare il destino di una cultura. Non può farlo da solo neanche Trump (che infatti è stato quasi manovrato da un super-organismo: il formicaio ), figuriamoci una persona che non ha il minimo potere, neanche sulle proprie idee. Perché finché ci saranno gli altri ogni nostra idea potrà essere travisata e potrà diffondersi in una nuova forma.
L’immagine di Matt Furie che emerge è quella di un ingenuo e giovane artista “invecchiato” troppo presto, ancora appartenente a un mondo in cui è possibile possedere le proprie creazioni
In questo confuso e nuovo universo si muove Matt Furie, il cui spaesamento è sottolineato in molte sequenze dalla macchina a mano di Jones, empatico e tuttavia distante dal soggetto, come a voler ritrarre un bonario alieno. L’immagine che ne emerge è quella di un ingenuo e giovane artista “invecchiato” troppo presto, perché ancora appartenente a un mondo in cui è possibile possedere le proprie creazioni e non lasciarsene travolgere. L’unico modo per recuperare la gioia e la fantasia di un mondo “altro” è artificioso: Jones inserisce in un documentario formalmente tradizionale lunghe sequenze animate che ripropongono l’estetica e i personaggi di Furie. Il rifugio ultimo dalla realtà che inquina la creazione artistica. Una reazione altrettanto inquinante ma di segno opposto, come in tutta l’ultima parte, incentrata sul progetto – di discreto successo – di purificazione dell’immagine di Pepe: non potendo tornare indietro, Furie decide di ricreare il suo personaggio usando il web per diffonderne i nuovi abiti. La metafora dei meme, alla fine, ci permette di comprendere il brutto e il bello della cultura: è plausibile, come scrive Dawkins, che «memi inconsci abbiano assicurato la propria sopravvivenza usando le stesse qualità di pseudospietatezza possedute dai geni di successo» da cui il triste destino dei “memeoidi” (termine coniato da Keith Henson) ovvero «le vittime che sono state catturate da un meme al punto che la loro personale sopravvivenza diventa priva di importanza». L’innocua e stilizzata rana Pepe ha lasciato sul campo di battaglia parecchi memeoidi, a cominciare dal suo stesso creatore.
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