Che cinema sarebbe senza festival?

La sospensione di Cannes per il coronavirus ci fa riflettere sulla sua importanza, tra valorizzazione e divulgazione

Pochi giorni fa è arrivata la notizia che il festival del cinema di Cannes, previsto dal 12 al 23 maggio, quest’anno non potrà svolgersi, perlomeno in queste date. La terrificante avanzata del coronavirus, già scagliatasi prepotentemente sul settore artistico decretando da tempo la chiusura di cinema, mostre e musei continua ad incedere implacabile rendendo ad oggi impossibile lo svolgimento di qualsiasi manifestazione. A Cannes, come si evince dal comunicato ufficiale e dalle dichiarazioni del direttore Thierry Fremaux, si sta già pensando a uno slittamento tra fine giugno e inizio luglio, ma il rischio che l’evento venga annullato è concreto e spaventa il mondo della settima arte. Dalla sua prima edizione del 1946 il festival ha saltato il suo appuntamento annuale solo nel 1968, quando a seguito delle turbolente manifestazioni nella capitale francese e le dimissioni di alcuni giurati (tra cui Monica Vitti e Roman Polanski) la rassegna venne interrotta – come raccontava Truffaut nell’intervista “Maggio ’68” contenuta in Tutte le interviste di François Truffaut sul cinema curato da Anne Gillain. La situazione odierna è decisamente diversa da quella del maggio francese e gli organizzatori possono solo sperare che le condizioni sanitarie migliorino rapidamente e che quindi l’edizione possa svolgersi entro luglio, anche perché altri festival, su tutti Locarno (5-15 agosto 2020) e Venezia (2-12 settembre 2020), sono già programmati nei mesi successivi. La concreta possibilità di un annullamento del festival ci fa riflettere sull’importanza e il ruolo svolto delle rassegne cinematografiche. Cosa sarebbe il cinema senza questi eventi? Cosa ci saremmo persi se il Festival di Cannes non fosse mai esistito?
 

A Cannes si può solo sperare che l’edizione possa svolgersi entro luglio, anche perché altri festival, su tutti Locarno (5-15 agosto 2020) e Venezia (2-12 settembre 2020), sono già programmati nei mesi successivi


Si guarda ai festival come agli eventi cinematografici per eccellenza, manifestazioni artistiche dove tramite un’accurata selezione vengono presentati una serie di film che si contraddistinguono per originalità e qualità. Il festival rappresenta l’istituzione cinematografica e con le sue scelte, in primis nei riguardi dell’ammissione di opere al concorso, si fa carico di decisioni che possono influire sulla distribuzione filmica e sulla nascita di un determinato “cinema nazionale”. Quando invece si tratta di festival internazionali, nel caso in questione Cannes – il più influente con Venezia e Berlino in Europa insieme al Sundance e Toronto nell’emisfero americano –, il lavoro che viene svolto è sicuramente più complesso, in particolar modo nella selezione dei film provenienti da paesi geograficamente, culturalmente e politicamente lontani dal mondo occidentale. Lo scrive il critico Andrea Bellavita in Le nuove forme della cultura cinematografica: critica e cinefilia nel web: «È ormai assodato che la funzione principale di un festival sia quella di scegliere che cosa si possa e si debba vedere all’interno della smisurata massa cieca della produzione». Queste scelte e i criteri di selezione adottati ci portano obbligatoriamente ad interrogarci sul potere decisionale esercitato dal festival francese nel decretare quale film merita di essere mostrato e soprattutto quale di questi può entrare a far parte del suo programma, etichettandolo e qualificandolo come opera artistica. Se guardiamo all’evento unicamente in questi termini, cioè come “istituzione cinema”, ne emerge un quadro oligarchico dove ogni decisione comporta una conseguenza che può esaltare o abbattere il lavoro di un regista.

Cannes però non è solo questo, non ha la sola funzione di consacratore o boia: è principalmente un luogo di profusione artistica, un pantheon culturale dove all’interno della medesima sala si assiste alle visioni più disparate, alle cinematografie più lontane e alle opere più estreme; tenendo a mente che una buona parte dei lavori proiettati durante la manifestazione non sempre trova una distribuzione al di fuori del circuito festivaliero, quindi capita frequentemente che il medesimo luogo dove si svolge l’evento diviene esso stesso promotore e divulgatore culturale – i film del filippino Lav Diaz, Pardo d’oro per Mula sa kung ano ang noon (2014) e Leone d’oro per The Woman Who Left - La donna che se ne è andata (2016), che nell’edizione di Cannes dello scorso anno ha presentato il suo ultimo lavoro Ang Hula, ne sono un valido esempio. Guardandolo da questa prospettiva il festival francese ha un ruolo paragonabile a quello che sul finire del XVIII secolo ebbe il Panorama (o Ciclorama) di Robert Barker, ovvero proiezioni di vedute di vario genere a 360° all’interno di stanze circolari tra cui immagini di terre lontane, la cui funzione, oltre all’intrattenimento, era mostrare luoghi e culture sconosciute. Tale festival è in gran misura questo: ambasciatore e propagatore culturale di cinematografie inesplorate. Ma per diventarlo è indispensabile che vengano compiute delle scelte che non si basano esclusivamente sul valore tecnico/qualitativo di un’opera, ma possono considerarne il rilievo socio-politico oppure decidere di dare visibilità e voce a film di registi censurati nei propri paesi, com’è successo per gli iraniani Asghar Farhadi e Jafar Panahi.
 

Il Festival di Cannes è sempre alla ricerca di nuovi talenti e spesso capace di riconoscerne il valore prima degli altri, come accaduto con Parasite di Bong Joon-ho, per cui la vittoria della Palma d’oro ha aperto la strada a tanti premi in tutto il mondo


Senza festival, in particolar modo quelli internazionali (che rispetto a quelli nazionali hanno l’opportunità di comporre selezioni più eterogenee), probabilmente ogni cinematografia racconterebbe la propria realtà, ci sarebbe minore apertura e confronto con il rischio di una maggiore standardizzazione delle opere. Il Festival di Cannes è dalla sua nascita un punto di riferimento per il mondo del cinema, sempre alla ricerca di nuovi talenti e spesso capace di riconoscerne il valore prima degli altri. Ne abbiamo avuto la riprova lo scorso anno con Parasite di Bong Joon-ho, per cui la vittoria della Palma d’oro ha aperto la strada a tanti premi in tutto il mondo, compresi i quattro Oscar – tra cui miglior film – entrando di diritto nella storia del cinema. Il regista sudcoreano, che buona parte del pubblico ha conosciuto quest’anno, aveva concorso a Cannes già tre volte con Tokyo! (2008), Madre (2009) e Okja (2017), e anche se l’artista non sembra nutrire particolare simpatia per questa manifestazione – «Come regista e amante di cinema, Cannes è il posto peggiore in assoluto, ma deve essere un paradiso per i produttori» – è innegabile che parte del suo successo sia dovuto al premio ricevuto in terra francese.

E di esempi ce ne sarebbero tantissimi: la Palma d’oro a Pulp Fiction nel 1994, che consacrò Quentin Tarantino al suo secondo lungometraggio dopo Le iene (1992), quella ai Fratelli Coen con Barton Fink – È successo a Hollywood (1991) con John Turturro cinque anni prima di Fargo (1996) o a Papà… è in viaggio d’affari (1985) di Emir Kusturica dieci anni prima di Underground. Mentre per quanto riguarda l’Italia tanto ha fatto l’amore di Cannes per Nanni Moretti che sin da quando era ancora l’autarchico scompigliato di Ecce bombo (1978) fino a Mia madre (2015) ha presentato praticamente tutti i suoi film in Francia, vincendo l’edizione del 2001 con La stanza del figlio. Adesso questi registi godono di fama e stima in tutto il mondo, ma quando ancora erano dei nomi come tanti altri a Cannes non erano passate inosservate le loro potenzialità. Se per un attimo provassimo ad immaginarci un mondo del cinema senza questo festival probabilmente tanti registi che oggi unanimemente vengono definiti maestri non godrebbero di tanto successo, tanti capolavori non avrebbero visto una sala cinematografica e, pensando a poco più di un mese fa, un film coreano non avrebbe mai potuto spodestare un’opera statunitense dal trono degli Oscar.
 

Senza Cannes tanti capolavori non avrebbero visto una sala cinematografica e un film coreano non avrebbe mai potuto spodestare un’opera statunitense dal trono degli Oscar


Per quanto queste rassegne abbiano il potere di decidere quali film devono essere visti, come scrive giustamente Bellavita, le risonanze che ne conseguono arricchiscono il panorama artistico di nuovi sguardi sul mondo, presentano giovani autori che raccontano utilizzando un linguaggio soggettivo e tecniche innovative, forse nate ispirandosi ad altre opere sbocciate in altri festival. Le disastrose settimane che stiamo attraversando, che non sembrano avere un corrispettivo cinematografico capace di mostrarne efficacemente la ferocia – forse ad eccezione di Contagion (2011) di Steven Soderbergh, quasi una cronaca dei giorni che stiamo vivendo –, stanno minando ogni nostra certezza futura, ogni evento è stato rimandato mentre il Palazzo del cinema sulla Croisette di Cannes si appresta a fungere da riparo per i senzatetto. Nonostante questo, rimaniamo comunque speranzosi che siano al più presto ufficializzate le nuove date. E anche se probabilmente l’edizione di quest’anno non si farà, siamo certi che la Palma di Cannes tornerà con ancora più originalità e raffinatezza a scegliere i film più adatti a raccontare il mondo.


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