Centro di gravità permanente

La decadenza e l'illusione di una nuova era

Sentono l’amaro in bocca quelli che per quasi vent’anni hanno atteso un momento che, nella loro insana immaginazione, avrebbe dovuto essere unico e memorabile. Sorretti dall’idea perversa di una democrazia ipertrofica ed esasperata, hanno visto avverarsi il loro sogno giustizialista. Eppure, la cacciata del tiranno è stata discreta, burocratica. Il supplizio di Tantalo degli antiberlusconiani si è interrotto nel volgere di un’ora, tra un ordine del giorno e l’altro. Il Senato, con un voto come tanti altri, ha deciso la mancata convalida dell’elezione di Silvio Berlusconi. I tanto attesi toni trionfalistici per l’inizio di una nuova epoca si sono ridotti ad un mero esercizio di stile con cui ricamare le pagine dei quotidiani, proponendo argomenti logori e inconsistenti. I grandi rivolgimenti politici lungamente sperati non sono stati altro che qualche parlamentare uscito dalla maggioranza, qualche conto elementare per appurare che il governo può ancora andare avanti. Oltre a questo, nient’altro.

Nulla è cambiato, in fondo. Il Cavaliere ha forzosamente abbandonato il Senato, minacciando il proprio ritorno. Ma è evidente che ormai è avvolto da un graduale e inesorabile declino, e lo trascina verso il fondo insieme al suo partito di irriducibili partigiani, eterni pretendenti alla successione. Quasi venti anni di Berlusconi si concludono miseramente in sordina, senza clamori, in un pomeriggio di fine Novembre. Il voto del Senato non è né una bella né una brutta pagina della democrazia: è piuttosto una delle sue tante pagine, che reca un discorso giunto gradatamente ad un punto fermo dopo qualche inciso sincopato.
Ma in quelle pagine si legge il racconto di venti anni trascorsi quasi anonimi, senza proposte politiche credibili e lungimiranti. Venti anni di miopia, viziati dall’afflato di promesse sterili e da contrapposizioni inconcludenti. Venti anni in cui è cambiato ben poco per il Paese, e che oggi costituiscono un ritardo abnorme che ci troviamo a scontare tutto insieme, senza sapere come porre rimedio alle nostre annose sofferenze.

All’indomani della decisione del Senato, la maggioranza è più unita e coesa, grazie al sostegno degli esuli diseredati del Popolo della Libertà, sufficienti a far quadrare i numeri della maggioranza. Il governo delle intese è salvo. Il Paese forse no. Perché la stabilità raggiunta a caro prezzo dopo il risultato fallimentare delle elezioni del Febbraio scorso ha sortito fin da subito un effetto positivo sui mercati, dopo mesi di turbolenze pericolose. Si è trattato comunque di un effetto collaterale, quasi scontato, pressoché indipendente dall’azione di governo, e il vento, così come ad un tratto è diventato favorevole, potrebbe presto tornare a soffiare contrario. In assenza di solide basi, anche un leggero alito potrebbe essere sufficientemente destabilizzante. Concretamente, infatti, si è visto ben poco. I proclami condivisi sulla necessità di approvare nel più breve tempo possibile le riforme strutturali essenziali sono caduti nel vuoto.
Certo, fino a pochi giorni addietro bisognava fare i conti con un Popolo della Libertà – o meglio, con un Cavaliere – inquieto, pronto a imporre il proprio diktat quando si fosse presentato il minimo pretesto, a imporsi con le proprie riserve su qualsiasi decisione economica. Tuttavia si è scelto di intraprendere il percorso più semplice, e cercare di sopravvivere il più a lungo possibile. Si è tirato a campare, nell’inerzia più assoluta. Si è sprecato tempo utile, in sostanza.

Adesso che gli assetti della maggioranza sono mutati, però, è l’occasione di dare veramente quel segnale di discontinuità auspicato dal Quirinale. Una svolta nell’azione di governo che non può tardare ancora, ma anzi deve essere decisa, incisiva tanto quanto può esserlo quella di un governo delle intese. Non è possibile indugiare ancora sulle riforme, ed essere più attenti agli equilibri della maggioranza che alle sorti del Paese. Le grandi istanze del mondo dell’industria e dei sindacati rimangono in attesa di risposte: la giustizia, le imposte sul lavoro, la disoccupazione. Le misure accennate e timide attuate dal governo fino ad ora sembrano quasi ridicole dinanzi ai problemi strutturali che affliggono l’Italia tenendola lontano dalla ripresa. Non si tratta di fare l’impossibile, bensì il necessario. Con più coraggio, muovere passi decisi. Altrimenti si tornerà sempre al punto di partenza.

Il Partito democratico, dopo la sconfitta giudiziaria del Cavaliere, è indubbiamente più forte. Mentre ciò che resta del Popolo della Libertà è ancora alle prese con la conta dei sopravvissuti, e si trova a brancolare nel buio senza una guida, Enrico Letta si gode il premio della propria perseveranza e del proprio temporeggiare. L’armonia delle parti è raggiunta, e la stabilità è solidamente affermata. Ma la deriva verso la stasi e l’improduttività è il rischio più grande cui il Paese sta andando incontro.
Nel contempo, comunque, pare prendere forma il progetto anacronistico di un centro indistinto, in cui far confluire moderati, comunisti pentiti e nostalgici democristiani. Il premier, tenutosi al riparo dalla mite campagna elettorale delle primarie, tesse la propria tela di alleanze. Per il suo esecutivo, l’altra insidia resta quell’Otto Dicembre in cui, con buona probabilità, Matteo Renzi riuscirà a spuntarla nella corsa alla segreteria del Partito democratico. Nonostante le rassicurazioni fornite dal Sindaco, le probabilità che i suoi si dimostrino fedeli a un governo incapace di fare le cose sono abbastanza scarse. Soprattutto se i sondaggi continueranno a dare loro vigore, e li convinceranno di poter tentare le urne.


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