Cara Luna

Viaggi e miraggi lunari dell'uomo fra razzi e letteratura

«Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che gli uomini m’ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si posero in animo di conquistarti esse; e a quest’effetto fecero molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e levandosi sulle punte de’ piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare». Così parla, rivolgendosi al proprio satellite in un mo­mento di noia, la Terra delle Operette morali di Giacomo Leopardi, datate 1827. Il gobbo recanatese non po­teva immaginare che solo centoqua­ranta anni dopo, esattamente il 20 luglio 1969, due yankee alti e biondi di nome Neil Armstrong e Buzz Al­drin, battendo sul tempo gli astro­nauti dell’URSS, la Luna l’avrebbe­ro raggiunta per davvero. Non le­vati sulle punte dei piedi né con le braccia protese al cielo, ma lanciati in orbita da un razzo multistadio a combustibile liquido battezzato Sa­turn V. Prima di questa «passeggiata prosaica e un po’ stupida degli ame­ricani sulla luna», come la definisce Pasolini in un articolo del 9 agosto, una simile impresa, frustrante nella realtà per l’insufficienza della tecni­ca, era sempre stata dominio dei po­eti e dei letterati, gli unici in grado di realizzare programmi spaziali in as­senza di cherosene.
Corpo celeste in ciclica danza con la Terra, la Luna ci guarda da sempre enigmatica e se­rena. La sua luce ha la proprietà di imprimere sul mondo solare dell’e­videnza, della prosa potremmo dire, l’effetto di un vetro distorcente, ca­pace di sospendere oggetti e super­fici in una dimensione che ne rivela in naturalezza aspetti straordinari. Per questo, come oggetto principe del vago e dell’indefinito, chiavi del piacere le­opardiano, è elemento dall’elevato potenziale immaginifico: il cortocircuito fra ciò che è lontano e vicino, anzi dentro, allo stesso tem­po, la sfuggente e tremolante fissità di quel che non si vede bene, uniti all’attrazione per l’altra faccia delle cose, per l’oscurità, per l’inconfes­sato.

Investito dall’immagine anomala della Luna piena, il licantropo al suo stato umano, cioè nella sua forma ordinaria, ne viene assorbi­to per ripiombare sulla Terra coperto di peli

È il plenilunio, nella tradizione folcloristica e poi horror, a rivelare la natura ferina dell’uomo affetto da licantropia. Investito dall’immagine anomala della Luna piena, il licantropo al suo stato umano, cioè nella sua forma ordinaria, ne viene assorbi­to per ripiombare sulla Terra coperto di peli, dotato di una forza sovruma­na e con tutte le attitudini di un animale. Comprese quelle più pericolose. Dalla pellicola lunare ottiene l’abilità nella caccia, l’astuzia, la potenza, la ve­locità, e insieme l’imprevedibilità, l’aggressività, l’estraneità a qualsiasi logica sociale: tutto ciò che desidera e tutto ciò di cui ha paura. È una del­le tante forme prodotte dalla cultura popolare, abilissima nella figurazio­ne oggettiva, e sorprendentemen­te poco sentimentale, di desideri e dinamiche collettive (direi, con az­zardo, il pessoano «sentire con l’im­maginazione» e non con il cuore) – forme diventate per buona parte, in epoca medievale, efficaci luoghi del demoniaco. Attorno alle fasi lunari si articolano anche gli Esbat, rituali re­ligiosi pagani dedicati al culto della femminilità rappresentata dalla Dea lunare, già destinata a produrre, nella codificazione inquisitoria, la vi­sione di creatu­re stregonesche in sella a scope volanti. «Cre­do», dice Italo Calvino parlan­do di streghe nelle sue Lezioni americane, «che sia una costante antropologica questo nesso tra levi­tazione desiderata e privazione sof­ferta. È questo dispositivo antropo­logico che la letteratura perpetua». Qui forse l’origine della smania lu­nare, che prima di diventare «cor­sa» della tecnica è stata soprattutto desiderio popolare di leggerezza, di levità. Una via per chiedere al cie­lo di restituirci un’immagine di noi, qualunque essa sia, che ci dia le pro­ve prima della nostra esistenza, poi della nostra umanità. Anche a costo di rientrare a casa con degli orecchi da canidi.

Ma i nostri passaggi sulla Luna hanno lasciato i loro segni, anche più pro­fondi della suola di Armstrong. Ecco quindi spiegata la presenza di un volto, si potrebbe dire triste, coi cra­teri mutati in grandi occhi e bocca e naso imbroncia­ti. Una leggenda medievale, per giustificare que­gli stessi crateri, narra che Cai­no, condannato da Dio ad erra­re senza meta dopo l’uccisione del fratello, arrivò fino alla Luna e lì rimase arpionato alla superficie con un fascio di rovi legato alla schiena. Ne dà conferma Dante, nel Canto XX dell’Inferno, quando si esprime con «Caino e gli stecchi» per indicare il satellite. Di qui l’antica filastrocca infantile, meno severa dell’universo dantesco, che assolve Caino in ver­sione culinaria:
 

Vedo la luna, vedo le stelle
Vedo Caino che fa le frittelle
Vedo la tavola apparecchiata
Vedo Caino che fa la frittata.

 

Sulla stessa modulazione gastrono­mica il coniglio gigante che giappo­nesi e cinesi vedrebbero disteso sul­la Luna intento a cucinare un mochi, tipica tortina di riso. Raggiungere un simile paradiso non poteva che essere, nella storia della figurazione, un’invincibile lu­singa. Non si stupisca dunque il go­verno americano se il primo vero co­smonauta, sbarcato sul suolo lunare con un budget decisamente inferiore ai 25 miliardi di dollari investiti nel programma Apollo, risale a ben pri­ma degli anni ’60. Visse nel II se­colo d.C. e si chiamava Luciano di Samosata, autore di Storie vere to­talmente inventate. La rampa di lan­cio della sua navicella è il mare, dal quale un giorno, poco dopo aver la­sciato l’isola delle seducenti donne-grappolo, una potentissima raffica di vento invola l’imbarcazione ver­so il cielo. Dopo un viaggio di sette giorni, contro i quattro di Armstrong ed Aldrin, lui e i suoi compagni ap­prodano su quella che appare loro come un’isola luminosa nel buio: è Lei. Fanno qui la loro comparsa nel­la storia della letteratura i seleniti, gli immaginari abitanti della Luna. Hanno caratteristiche bizzarrissime. Mangiano principalmente ranocchi, partoriscono non dal ventre ma dal polpaccio, hanno un solo dito ciascu­no e aborriscono i chiomati: preferi­scono i calvi. Il loro sudore è latte da cui traggono formaggi, e hanno una specie particolare di occhi levatoi, ovvero indossa­bili a piacimento quando abbiano interesse a ve­dere qualcosa. Eppure non si potrebbero mai dire mostruosi. La cifra della loro eccezionalità si gioca in elementi a noi familiari, o meglio nella provocazione di quegli elementi: sempre di gambe, ventri, polpacci, capelli sono dotati, solo mi­schiati e alterati nelle loro funzioni. Qui i riflessi lunari, che assorbono gli uomini e li restituiscono scompigliati sulle pagine in bizzarri esseri antro­pomorfi, non sono più esiti popola­ri di un disagio o un desiderio, ma eminentemente letterari, poetici ri­sultati di un atto individuale e inten­zionale. Ovvero, creazioni. Luciano di Samosata conta, camminando sul suolo lunare, di accedere a un uni­verso negativo, cioè contrario, e di farne la chiave di una originalissima satira letteraria. Con l’esasperazio­ne delle sue figure, distorsioni delle nostre, traccia il disegno di una sto­ria che non è stata ma ben poteva essere, con creature e paesaggi che non esistono soltanto per sfortuna, e in un punto del cielo fisicamente irraggiungibile, ma solo per un caso della gravità. Il mondo si specchia in una sua possibilità irrisolta e ne ride. Forse con inquietudine, ma con in mano la prova di sé.

Ancora nel dialogo leopardiano fra Terra e Luna, il nostro pianeta – il no­stro ingenuo pianeta antropomania­co – chiede alla sua interlocutrice se sia vero che su di lei si depositi tutto ciò che gli uomini perdono: «l’amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine», il senno. Non può cre­dere la Terra che tutte le buone cose che vede deludere e smarrire dagli uomini, come osserva il crucciato Giacomo nel suo Ottocento, si per­dano nello spazio siderale, slacciate così senza poterle recuperare. Devo­no essere tutte raccolte sulla Luna. Così, se non possiamo riprendercele, almeno da qui possiamo vederle, ri­cordarle. La Luna di Leopardi lo nega. Ma era stato Ludovico Ariosto, tre­cento anni prima, a esprimere in ver­si quest’idea nel suo Orlando furioso. Non essendosi arreso alla sperpe­ro cosmico delle bellezze illusorie o precarie, delle ricchezze antiche, dei sogni infranti, degli amori perduti o disattesi (in definitiva, di tutte quelle cose che animano la nostra esistenza e che perdiamo «o per nostro diffet­to, / o per colpa di tempo o di For­tuna»), li aveva tutti raccolti in seno a due mon­tagne lunari. A farne esperienza letteraria il pa­ladino Astolfo, impiegato dal poeta nell’operazione di recupero del senno di Orlando folle d’amore. Arri­vato sulla Luna a bordo del carro di Elia, sgomita fra «le lacrime e i sospi­ri degli amanti», fra i «vani disegni che non han mai loco», tanti da es­sere ingombranti, fra le «corone anti­che» degli Assiri, dei Persi, dei Greci, testimonianze di un antico splendore ora disgraziato; e ancora vede i «mal seguiti amori» che hanno forme di «nodi d’oro e di gemmati ceppi», una montagna di fiori – un tempo pro­fumati, ora ma­leodoranti –, e bellezze di don­ne in gran quan­tità, sotto forma di pania, sostan­za vischiosa uti­lizzata per cattu­rare gli uccelli. C’è, insomma, tutto ciò che perdiamo e di cui sentiamo il bisogno. Solo una cosa manca: la pazzia, «che sta qua giù, né se ne parte mai». Di conseguenza, ciò di cui quel vasto magazzino abbonda è il senno, raccolto in ampolle di va­ria misura e capacità. Su ognuna di questa è scritto il nome del suo pro­prietario, avendolo perso ciascuno a modo suo:


Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, le ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
et altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.

 

Infine Astolfo trova quella con su scritto «Senno di Orlando». Al pala­dino lo aveva tolto la scoperta im­provvisa del tradimento di Angelica, da lui follemente amata, con Me­doro. Lo shock lo aveva paralizzato sull’erba per tre giorni e tre notti. Al quarto, attratto dalla Luna, il suo senno era già evaporato, lasciandolo folle e «furioso». Se non diventa un lupo mannaro, poco ci manca: spo­gliatosi della propria armatura e ri­masto totalmente ignudo, se ne va per campi e boschi sradicando alberi con le sole mani; incrociando due boscaioli impertinenti con un soma­ro, questo lo afferra per una zampa lanciandolo in cima a una collina, e quelli li straccia in due come pezzi di carta. La sua metamorfosi si fa ormai evidente quando Angelica, in­contrandolo per caso sulla spiaggia di Tarragona, non lo riconosce: la sua pelle, sempre esposta al vento e al sole, si è annerita, la sua faccia si è fatta magra (incavandogli quasi interamente gli occhi), tutta inqui­nata da sozzi e incolti peli. Neanche il paladino di Carlo Magno è sfuggito all’influsso magico della luce lunare.

 

Si può dire che sia stata la Luna a guardarci. Lei a sognarci e contaminarci, come una Circe o un Dr. Moreau nel suo laboratorio


Quando abbiamo alzato lo sguardo verso il cielo, con o senza la penna, sempre ne abbiamo ricavato un’im­magine, per quanto distorta, di noi: che fosse il lupo mannaro della cul­tura popolare, il selenita di Luciano, l’Orlando impaz­zito di Ariosto. Si può dire che sia stata la Luna a guardarci, non noi. Lei a sognarci e contaminarci, come una Circe o un Dr. Moreau nel suo laboratorio. Galileo, uomo di scienza più avvezzo ad osservare che ad es­sere osservato, ribalta la prospettiva con un’azione bellica rivoluzionaria: bombardando la Luna. Non con mine o granate, ma con un modesto stru­mento olandese da lui perfezionato, costituito da un tubo di piombo cui si applicano lenti di varia misura: il «cannocchiale», ovvero un canno­ne in grado di lanciare l’occhio a di­stanze inimmaginabili, permettendo di vedere gli oggetti fino a «quasi mille volte più grandi e più di trenta volte più vicini». Galileo è il primo uomo a guardare la Luna. E ne an­nota le prime considerazioni nel suo Sidereus nuncius del 1610. Rileva che «non è affatto liscia, uniforme e di sfericità esattissima, come di essa Luna e degli altri corpi celesti una numerosa schiera di filosofi ha ritenuto, ma al contrario, diseguale, scabra, piena di cavità e di sporgen­ze». Le grandi macchie (gran pro­blema per Aristotele, convinto del­la perfezione dei corpi celesti), che prima di allora erano considerate effetti ottici di varia natura, assu­mono ora nello sguardo di Galileo dei connotati scientifici, esatti: non più occhi, Caini o conigli giganti, ma crateri, montagne, elementi concreti e oggettivamente misurabili. Come nel celebre fotogramma del film di Méliès Viaggio nella Luna ispirato al romanzo di Jules Verne, il volto del­la Luna viene trafitto da un ogget­to estraneo, un proiettile che arriva freddo a imporre una misura. E non è l’Apollo 11, ma l’occhio di un fisico pisano.
È dunque la fine della poesia lunare, come si temette anche nel ’69? In­negabilmente la tecnica, ogni volta che avanza, sottrae alla poesia un brandello d’illusione. Ne fa prosa. Ma è il suo mestiere. Se un poeta si lamenta perché gli si tolgono gli oggetti poetabili forse non è un vero poeta, ma un feticista. Interrogato a proposito Eugenio Montale, in un articolo sul Corriere della Sera del 17 luglio 1969 (a tre giorni dell’al­lunaggio), rassicura i preoccupati: la Luna, scrive, «potrà ancora sugge­rire ai poeti le immagini della falce, del corno, del velo, dello specchio oscurato; e dalle varie fasi delle lu­nazioni i pescatori, gli aruspici e i viaggiatori sedentari potranno trarre presagi, augurî e tutto un vasto re­pertorio di ciò che in altri tempi fu detto poesia».

1967. Il programma Apollo è comin­ciato da sei anni e la Luna, ormai già raggiunta da sonde e ridotta a prova di forza tra due superpotenze, non è mai stata così solida. Eppure in quello stesso anno, nella penna di un narratore italiano, è potuta colare tutta addosso alla Terra. Italo Calvi­no pubblica la raccolta di racconti Ti con zero: lì si narrano le storie fan­tastiche di una singolarissima genesi del mondo, in tutto diversa da quella che conosciamo, testimoniata dagli occhi del misterioso e impronuncia­bile protagonista Qfwfq. Immerso in una paradossale dimensione primiti­va in cui le cose naturali sono la pla­stica, il nylon e le resine sintetiche, e le cui uniche luci notturne emanano da stelle e lampioni, assiste al feno­meno eccezionale dell’avvicinarsi di un corpo sferico sconosciuto e lu­minoso nel cielo. È la Luna, ma lui non la conosce. Ricorda: «la vidi […] che prendeva forma, una forma non ben definibile perché i contorni non erano abbastanza precisi per delimi­tare una figura regolare, insomma vidi che diventava una cosa». Allora corre a mettere l’occhio su un tele­scopio e la osserva con la febbre e il timoroso stupore di un primo uomo. E primo uomo lo è veramente. Il suo occhio è quello di Galileo. Poi, nella lotta di gravità alla quale la vicinanza costringe Terra e Luna, questa co­mincia a sfaldarsi in enormi lingue collose che gocciolano sulla Terra fino a ricoprirla interamente, devastando ogni residuo artificiale e sozzandola con la natura che vediamo oggi. Ecco dunque come sono nati i continen­ti sotto di noi. E fra questi deserti e questi mari ci specchiamo, noi sele­niti, noi astronauti, da sempre già col piede sulla lontana Luna.

 

Nelle immagini, il progetto per il mausoleo di Newton disegnato dall'architetto francese Étienne-Louis Boullée
Pubblicato su L'Eco del Nulla N.3, "Indagini e ricerche", Autunno 2015
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