Cantare per stare nel mondo
Il corredo orale dei canti femminili tra lavoro e desiderio, guerra ed emancipazione nel saggio “Voci” di Alice Mammola
Riguardo alla storia esiste una convinzione tenace, per cui a poter godere degli onori della memoria sarebbero solo gli avvenimenti significativi, le battaglie decisive, i governanti illustri. Si tratta di un fraintendimento piuttosto comune, che nulla ha a che vedere con lo sviluppo di questa disciplina, per lo meno nell’ultimo secolo, e che molto si lega invece al suo insegnamento scolastico e alla manualistica che lo supporta. Nonostante encomiabili eccezioni, infatti, i libri di testo ricalcano le indicazioni ministeriali, dedicando ampio spazio a questi temi, e i docenti con loro, relegando quindi tutto il resto a capitoli discorsivi – quelli che si possono leggere soltanto, tanto per farsi un’idea del periodo in questione – quando non ad appositi riquadri di approfondimento. Tutto il resto però è tutto. Come, appunto, la storiografia ha da tempo riconosciuto, è necessario restituire alla realtà del passato la stessa complessità che ritroviamo nel reale presente, in cui non esistono protagonisti designati, bensì ogni persona è compartecipe e il contributo che apporta è sempre e comunque tale che senza di esso nulla sarebbe uguale a ciò che invece è.
Il contesto di questa presa di consapevolezza e della necessità della sua divulgazione è quello che accoglie le ricostruzioni contenute in Voci. Storia di un corredo orale di Alice Mammola, edito dalla dinamica e impegnata Armillaria. Forte della sua competenza di archivista e di cantante, l’autrice restituisce la potenza di una storia poco nota e che pure nutre la nostra stessa carne, quella dei canti popolari femminili nel Novecento.
Nelle canzoni corali, le donne con coraggio sfidavano il destino, rivendicando la loro sessualità, denunciando le oppressioni, ribaltando la condizione di vita domestica e infrangendo le regole della castità, dell’eteronormatività o della mancanza di desiderio sessuale. Nelle canzoni la loro voce diventa quella di un soggetto parlante, desiderante, che si esprime e si autodetermina senza la paura di dire come vive e come soffre.
Quella capacità di dire io e fare io, che il sistema patriarcale ha sempre impedito loro di poter esercitare, si apre per le donne nell’intimità e nella condivisione del cantare insieme, in cui ci si conosce e ci si riconosce, ci si chiama a raccontarsi e si impara tutto ciò che nemmeno potrebbe pensarsi (Capitolo 1: I canti popolari femminili). Una dimensione libera e liberante, in cui si sprigiona la potenza della sorellanza intergenerazionale che educa, ammonisce, confida, sprona. Con una penna delicata e rispettosa, tanto di chi legge quanto dell’argomento trattato, Mammola raccoglie gli snodi fondamentali di questo narrar cantando che opportunamente definisce un corredo orale: come l’insieme delle risorse che accompagnavano le future spose a iniziare quella che allora era l’unica vita adulta possibile, anche i canti fornivano strumenti per stare e orientarsi nel mondo, anche e soprattutto per chi, non sapendo leggere o scrivere, non avrebbe trovato altrove né aiuto né voce. Il canto rende invece possibile esprimersi e inserirsi in uno spazio plurale, corale appunto, che si fa comunità.
Qui si racconta tutto ciò che fa parte della vita quotidiana, senza infingimenti o giudizi, lasciandolo emergere in tutta la sua complessità (Capitolo 2: La vita delle donne). Il matrimonio, la maternità, lo stupro, il desiderio, il femminicidio, l’infanticidio, la vedovanza e il lavoro d’ogni giorno diventano temi in cui sostare per ritrovare supporto nelle voci altrui, come accade in un coro, e per pronunciare ciò che altrimenti sarebbe rimasto nell’ombra a minacciare e distruggere, come i galant appostati per cogliere sole le bambine mandate al pozzo.
Questa accortezza e questa consapevolezza tornano anche più forti nell’esperienza del lavoro altrove, che fosse quello stagionale e spesso minorile, come per le mondine, o quello di lungo termine delle migrazioni, entrambi scenari cantati in tutta l’ambivalenza emotiva che potevano suscitare (Capitolo 3: Lavoro, viaggi, emancipazione). Così viaggiare si configura come un momento di acuta malinconia e profondo timore, ma anche di aspettative e speranze per le possibilità che, lontane da casa, si sarebbero potute vivere. In particolare, nel cantare delle lavoratrici si riflette sulle condizioni del lavoro stesso e si comincia a esprimere un’aperta insoddisfazione nei confronti dello sfruttamento di cui i padroni raccolgono tutti i proventi: nasce una limpida coscienza di classe, che ha una voce collettiva e non teme di usarla.
La coscienza di classe si sposa allo sviluppo di un’autocoscienza propriamente femminista, per cui si lotta insieme per la cessazione dello sfruttamento dell’operaia e per la sua emancipazione sessuale
La stessa temerarietà anima le canzoni sulla guerra, un autentico controcanto ai cori di soldati e alpini, alle loro goliardie e nostalgie, che grida l’insensatezza dell’uccidersi e maledice l’impresa non meno dei mandanti, perfino se hanno il capo cinto d’una corona (Capitolo 4: Donne e guerre). Un pacifismo feroce, concreto, pragmatico e potente, che tuttavia lascia spazio anche alla possibilità di imbracciare le armi per difendersi e lottare per la propria libertà, come la partecipazione femminile alla resistenza – mai troppo studiata – ha realizzato. La lotta non si fa però solo in guerra, ma anche sul posto di lavoro, replicando la forza combattiva delle mondine nel contesto urbano della fabbrica (Capitolo 5: Città, scioperi, femminismo). Qui la coscienza di classe si sposa allo sviluppo di un’autocoscienza propriamente femminista, per cui si lotta insieme per il pane e per le rose, per la cessazione dello sfruttamento (duplice, domestico e lavorativo) dell’operaia e per la sua emancipazione sessuale. Qui ci si ritrova come corpo desiderante e politico, personale e collettivo.
Un corpo che è come voce. Intanto perché la voce è già corpo, come scrive la filosofa Adriana Cavarero, e niente come il canto popolare restituisce chiara questa provenienza incarnata, per cui le voci sono sempre nude, ineducate, frammiste ai suoni della vita quotidiana, sporcate della partecipazione spontanea e non performativa, rotte dalle posizioni ricurve in risaia e dall’impegno costante delle mani nel gesto di lavoro. Ancor più però le voci fanno corpo, restituendo spazi a chi era costretta ai margini, volume a chi veniva silenziata, riconoscimento di tutta la visceralità di un vissuto che non poteva ridursi alle belle formule con cui lo si narrava nella cultura alta e sempre inevitabilmente altra rispetto alla vita.
[…] è evidente come il corpo sia il filo rosso che unisce le istanze, le battaglie, i timori, i bisogni e i desideri delle donne. Il corpo come ricettacolo di giudizi e stigma, dello sguardo e della violenza patriarcale; il corpo come responsabilità individuale e collettiva, come strumento di potere, creazione e autonomia.
Il corpo sempre al centro e da cui parte tutto. In ogni epoca, in ogni storia si parla del corpo delle donne col tentativo di normarne aspetto e uso ma la controstoria femminile ha sempre ingaggiato un controcanto per riappropriarsene, deciderne in autonomia e liberarsi delle oppressioni.
Forse è proprio il legame con il presente a rendere evidente l’importanza di questa ricerca storica e della capacità di mettersi in ascolto che queste pagine incarnano o, meglio, suggeriscono proprio nel loro praticarla. Una dinamica che si riverbera nei confronti dell’intersezionalità caratteristica del femminismo contemporaneo, che Mammola richiama ma anche realizza in ogni riga del suo lavoro. Il femminismo intersezionale, per suo canto, non è solo il luogo in cui qualcosa come il coro ancora si manifesta – basti pensare alle piazze –, bensì una dimensione che, anche laddove non si canti, emerge come condivisa eppure mai escludente, uno spazio in cui è possibile essere e crescere, imparare e confessare. E soprattutto fare io e fare noi, cioè organizzarsi e lottare.
Le mondine al lavoro nelle risaie nello scatto scelto per la copertina di Voci. Storia di un corredo orale
Proprio perché nel contesto contemporaneo, come sottolinea l’autrice, si è costrette a una forma del vivere privata e individuale, che strappa le radici dal contesto comunitario, impedendo di fatto di crearlo, è importante custodire ciò che ci permette di riconoscere la nostra partecipazione alla realtà, il nostro contributo in prima persona a ciò che è la vita di tutte e tutti. Non c’è mai stato, infatti, un momento in cui la presenza di chi pure è stato messo ai margini dai sistemi di potere non sia stata essenziale alla tessitura del reale, così come ogni voce è sempre fondamentale alla trama del cantato corale.
Questo corredo orale che ancora ci fa e che ancora possiamo fare, Mammola lo racconta in un testo breve ma completo, che suona come la sua voce melodiosa e potentissima
Di questa tradizione, orale e plurale, siamo già eredi. Occorre allora assumerne la responsabilità nella pratica della condivisione, ma anche conoscerne la storia per avere gli strumenti teorici necessari a orientarsi nel mondo, a fare mondo insieme alle altre. Questo corredo orale che ancora ci fa e che ancora possiamo (quindi anche dobbiamo) fare, Mammola lo racconta in un testo breve ma completo, che suona come la sua voce melodiosa e potentissima. Un libro che, sulle sue note finali, indica nuovi percorsi di approfondimento e di azione, tanto nelle considerazioni conclusive quanto nella ricca bibliografia ragionata, in cui etnomusicologia e ricerca storiografica si coniugano alle raccolte di canzoni e testimonianze. In ogni pagina, immancabili i rimandi puntuali a questo patrimonio di voci che l’autrice rende possibile riscoprire nella loro concretezza, secondo quel lavoro di divulgazione, di risonanza, che porta avanti da anni e che ora ha assunto anche la forma, e la forza, del saggio cantante.
In copertina: Le mondine (1868) di Jules Breton
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