Caccia alle streghe
Su La festa nera di Violetta Bellocchio, romanzo scuro sulle deviazioni del mondo contemporaneo
Se fosse una puntata di una serie televisiva, sarebbe una di Black Mirror. Se fosse un film, sarebbe una di quelle pellicole ascrivibili all’universo fantascientifico post-apocalittico, o derivanti dallo stesso genere: These Final Hours, The Sacrament, Snowpiercer; o la saga di Mad Max, alla quale si è aggiunto da qualche anno l’adrenalinico Fury Road. Non è casuale aver citato alcuni road-movie, perché da Genova a Piacenza c’è una strada che collega tutto il territorio tra le due città, attraversando la Val di Trebbia: è la strada statale 45, che funge da collante tra la costiera ligure e la Pianura Padana. È questo il fazzoletto di terra entro cui si muovono i protagonisti della Festa nera di Violetta Bellocchio che, con una scrittura cruda e mai accomodante, tinge i panorami che circondano le strade sconnesse nell’area intorno a Bobbio di scuro, nero: di buio.
Uscito per la collana Altrove di Chiarelettere diretta da Michele Vaccari (insieme a Il grido di Luciano Funetta), La festa nera proietta il lettore in un futuro non troppo lontano, già segnato da un imprecisato tracollo che ha lasciato il mondo sconvolto in modo più sottile rispetto a come invece erano soliti lasciarlo i blockbuster apocalittici dei primi anni duemila. Le categorie sociali sono abbandonate a loro stesse, il livello di violenza ha alzato l’asticella e ha raggiunto un nuovo standard minimo. Di contro, non si vuole sentire: l’uso di pasticche antidolorifiche sono all’ordine del giorno; anestetizzarsi è ormai divenuto un meccanismo di difesa. Il palcoscenico è un vasto mondo sporco e deforme, e in scena abbiamo tre personaggi principali: Ali, Nicola, Misha. Per loro vale il detto per cui la famiglia non te la scegli ma gli amici sì, e nella vita fanno i documentaristi:
Filmiamo il reale in tempo presente. La nostra specialità è tutto quanto sta all’incrocio con lo strano, il triste e lo scuro. Andiamo a cercare le vite delle persone diverse da noi – le vite di quelle che fanno cose squallide, bizzarre, antisociali e degradanti, ma in fondo anche curiosamente umane, no? […] le offriamo al pubblico più ampio possibile sotto forma di reportage in prima persona. Andiamo e ci mischiamo a loro, un giorno alla volta. Li guardiamo. Poi torniamo a casa e non ne parliamo più. Poi ricominciamo. Le nostre mani hanno rasoi, i nostri denti hanno denti.
Ma in gioco c’è di più che filmare lo strano, il triste, lo scuro. Si tratta di andare a caccia di storie che abbiano un senso e che, una volta montate e caricate online, continuino a produrre significato a forza di click e visualizzazioni. Lo scopo è quello di svelare i retroscena di sub-culture controverse per alimentare sorpresa, indignazione e sconcerto negli internauti. Ali, narratrice della storia, si occupa della ricerca e dell’organizzazione, oltre che degli aspetti fonici in presa diretta. Nicola è addetto alla camera a mano, mentre Misha si mette di fronte alla telecamera a presentare il soggetto. Una volta entrati nel vivo, la ragazza provoca il suo interlocutore, smascherando l’ipocrisia che si cela dietro il suo agire. L’identità documentaristica del gruppo si può riassumere in una citazione – messa in bocca a Vadim, il coinquilino di Ali – che si riferisce a un meme dei giorni nostri (Hey there demons, it’s me, ya boy) divenuto virale nei paesi anglofoni da circa un anno. Tra i tanti impavidi presentatori di reportage americani che si sono infilati in locali abbandonati alla ricerca di presenze spiritiche, ce n’è uno che, nello scantinato di un bar infestato, li invita con cortesia a fargli del male. Esorcizzando la paura con quelle poche parole che spopoleranno sul web, il presentatore esce dalla baracca illeso. Così opera anche il gruppo di Ali, che si prende la responsabilità di gettare luce sui profondi malesseri sociali smontando l’intera costruzione di credenze che li occulta muniti di strafottenza e spavalderia. Non è solo un lavoro, ma una missione di vita: «Signore conoscete le regole. Da adesso in avanti non abbiamo famiglie, non abbiamo amici, non abbiamo nessuno, e non siamo niente senza la storia. Viviamo insieme, lavoriamo insieme, per il re e per la Patria».
Un errore porta i ragazzi a esporsi involontariamente alle feroci, violente, disturbanti reazioni dell’opinione pubblica: è la loro personale fine del mondo
Ma qualcosa va storto: una trappola scattata durante la registrazione di un servizio, preceduta da un loro – probabile – errore di valutazione nella gestione dei rischi, porta i ragazzi a esporsi involontariamente alle feroci, violente, disturbanti reazioni dell’opinione pubblica: è la loro personale fine del mondo. Dopo essere stati oggetto delle più atroci accuse e aver perso ogni credibilità, in un turbine mediatico che li ha portati addirittura a temere per la propria vita, del corposo gruppo iniziale rimane solo il trio. Per riscattarsi, decidono di partire alla volta di cinque comunità situate sulla SS 45, ognuna delle quali ha declinato il «culto della personalità» in modo più o meno degenerato. L’obiettivo è quello di documentare lo stile di vita degli affiliati e raggiungere la quinta setta capeggiata da un certo Padre, che sembra sia capace di vere e proprie opere curative. Deciso, il trio parte. Ma già dall’inizio si intuisce che qualcosa non girerà per il verso giusto: «Sapevamo dove stavamo andando quando abbiamo iniziato. Non sapevamo – almeno io non lo sapevo, e spero neanche Nicola – dove saremmo andati a finire».
Il romanzo comincia così come termina: con Ali sola in un bosco, di notte. È questa la cornice temporale che ospita il più ampio dipinto dell’incedere narrativo, in cui l’uso dei flashback mantiene alta la tensione del racconto e permette al lettore di trovarsi faccia a faccia con i colpi di scena nel momento giusto. La scelta del presente come principale tempo verbale crea poi un collegamento intratestuale tra il modo di filmare “il reale in tempo reale” proprio del documentario e la forte componente visiva del romanzo stesso, ma le suggestioni che rimandano alla settima arte non si esauriscono qui: il romanzo strizza l’occhio al mockumentary, sottogenere cinematografico dalle duttili proprietà formali che dalla fine degli anni novanta ha fatto molta fortuna applicandosi al genere horror. The Blair Witch Project, il già citato The Sacrament (diretto da Ti West, regista di cui nel romanzo si nomina un altro film, The House of The Devil), sono pellicole che avranno fortemente influenzato l’immaginario della Festa nera, in cui il documentario è falso solo perché prodotto in un contesto di finzione letteraria, anche se la narrazione in quanto tale ha pretese di verosimiglianza come – d’altronde – tutta la fiction, scritta o filmica. Il mondo della Festa nera è uno scenario futuribile più aderente alla nostra realtà quotidiana di quanto si possa pensare: già adesso esistono molti casi di shaming online, e internet è un luogo di perversione e devianza, che dà risonanza a chiunque voglia esprimere la propria opinione su qualsiasi cosa con la rabbiosa violenza di chi condanna con la pancia, senza alcun criterio o senso della misura. La verità dei fatti è una bazzecola ornamentale, l’importante è colpire per far male; la caccia alle streghe, virale come un morbo, è sempre aperta.
Trovano la mia mail, il mio profilo privato, l’unico, che non ricordavo di avere aperto. Prendono le mie foto. Prendono la musica che ascolto. Prendono tutti i commenti, tutti gli aggiornamenti. Prendono tutto quello che ho detto e mi trascinano all’inferno. Puttana. Lesbica. Strega. Negra. Gialla. Zoccola. Cagna.
Oltre ai molteplici riferimenti intermediali disseminati per il testo, è proprio questa particolare riflessione sulla nostra realtà il valore aggiunto del romanzo di Violetta Bellocchio. Una riflessione restituita da un grande lavoro sul linguaggio, che partorisce similitudini dure e vivide: «Ha la voce come una macchina messa in moto sfregando cavi», «tu rotoli attraverso i giorni come una testa tagliata che sta finendo una frase». La ricodifica del sistema verbale – caustico, asciutto, a tratti oscillante tra il beffardo e il sardonico – ridisegna concetti chiave come quello di Fede, Realtà, Dio, Futuro, e fa ripensare ulteriormente a noi come esseri umani e alla deriva alla quale ci stiamo piano piano avvicinando. Rimarremo persone? Saremo cose? «persone-cose? Non sono più persone e non riesco a considerarle ancora cose. Una via di mezzo, ecco. Un seducente ibrido postumano. Bella storia».
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