Brexit: meglio l'Europa oggi che la recessione domani
I vantaggi (pochi) e i rischi (moltissimi) di un Regno unito fuori dall'Unione
C’è un interrogativo che aleggia tra gli inglesi. Ma anche nei corridoi di Bruxelles. Cosa accadrebbe se il Regno Unito lasciasse l’Unione Europea? Nessuno può saperlo, per adesso. Sarebbe il primo caso di uno Stato che sceglie di lasciare l’UE. Fino a poco tempo fa si pensava che l’ingresso nell’UE fosse come un biglietto di sola andata, con destinazione la «ever closer union». Tuttavia, visto che la meta si è allontanata sempre di più nel corso del tempo, con il Trattato di Lisbona e l’approvazione della Versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea si è cercato di prevedere anche questa eventualità. «Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione», si legge all’articolo 50.
Molti studiosi hanno provato a capire cosa potrebbe accadere nel caso di una Brexit, soprattutto dal lato del Regno Unito. Le conseguenze che potrebbero verificarsi non sono certo incoraggianti, se si considera che più della metà dell’export del Regno Unito è destinato all’UE, e questo rappresenta circa il 15% del PIL e che l’eventuale Brexit avrebbe sicuramente degli effetti su queste percentuali. Uno dei paper più interessanti per capire quali scenari si prospettano al Regno Unito è quello del Centre for Economic Performance della London School of Economics. Tra gli scenari che si figurano dopo l’uscita, il primo caso è l’adozione di un modello analogo a quello della Norvegia, che fa parte dello Spazio economico europeo pur non essendo nell’UE. Pur garantendo l’autonomia rispetto alla politica monetaria, agli affari interni e esteri, obbligherebbe comunque a contribuire al bilancio e ad implementare quelle regole che riguardano il mercato unico. Una diversa prospettiva è quella che si richiama alla Svizzera: una serie di accordi bilaterali per ciascun programma, da definire di volta in volta, che però escluderebbe del tutto il Regno Unito dai processi decisionali e lo obbligherebbe comunque alla contribuzione finanziaria per i progetti sottoscritti. Anche un eventuale ritorno del Regno Unito nell’EFTA (che contribuì a fondare) garantirebbe sì l’assenza di barriere doganali, ma limiterebbe la circolazione dei servizi e delle persone. Ultima spes sarebbe semplicemente applicare gli standard del WTO, l'organizzazione mondiale del commercio. Il Regno Unito è il terzo contribuente al bilancio europeo (al 12,57%, dopo Germania e Francia), e paga ogni anno a Bruxelles 340 sterline l’anno per famiglia, ricevendone al netto circa 3000 dall’Unione Europea sottoforma di contributi diretti, rebate e investimenti privati.
Che l’uscita dall’UE non sarebbe indolore per il Regno Unito lo si è già intuito. In un recente rapporto del Tesoro britannico si prevedono due scenari macroeconomici, uno più cauto e uno di «severe shock» per i due anni dopo l’uscita dall’UE. Nel primo caso si presume che si riesca a negoziare almeno un accordo commerciale bilaterale, si stima un calo nella crescita del PIL del 3,6%, oltre a un calo del 12% del valore della sterlina, 520mila disoccupati in più, una diminuzione del 2,8% dei salari e del 10% del valore degli immobili. Un disastro. Ma potrebbe andare peggio: nel caso non si riuscisse a negoziare l’accordo, la crescita diminuirebbe del 6% e si perderebbero 820mila posti di lavoro. La sterlina ha già dato prova dell’incertezza politica: se a Gennaio il cambio con l’Euro superava 1,36, ora viaggia intorno all’1,28. Per queste ragioni è difficile trovare dei leader di grandi aziende che si siano espressi in modo favorevole rispetto alla Brexit. L’industria è compatta a favore del rimanere nell’Unione Europea: oltre l’89% delle imprese si dicono a favore del rimanere in Unione Europea. Da Ryanair che propone sconti nei giorni intorno al referendum per i viaggi nel Regno Unito (nulla a che vedere con lo sconto per il Family Day di Italo), a Richard Branson, ceo dell’impero Virgin che spera che «prevalga il buonsenso», tutti sanno che la Brexit significherebbe essere meno competitivi per via di barriere doganali e non tariffarie che oggi sono assenti.
L’unico vantaggio potrebbe essere disfarsi della burocrazia europea, che è evidentemente un intralcio in uno dei Paesi con la più alta flessibilità del mercato del lavoro al mondo. Tuttavia, questo potrebbe equivalere anche a disfarsi di alcuni diritti minimi per la tutela dei lavoratori, che potrebbero essere ridimensionati, a cominciare dal periodo di maternità. Soprattutto, però, qualora si assistesse ad un abbandono dell’UE da parte del Regno Unito, le grandi industrie che hanno scelto la Gran Bretagna come sede per il mercato europeo potrebbero scegliere di spostarsi altrove per continuare a servire agevolmente il mercato dei 27 Paesi rimanenti. Delle grandi imprese quotate sul FTSE 350, il 70%, è convinto che potrebbe esserci «qualche» o un «significativo» danno ai loro affari nell’eventualità della Brexit.
Lo spettro della recessione economica profonda e di un ruolo non più di primo piano nell’economia sono prospettive concrete per il Regno Unito, una volta abbandonata l’Unione Europea. Non saranno solo i pensionati inglesi che vogliono andare a trascorrere la propria vecchiaia in Spagna a dover essere preoccupati.
Foto di Giulia Patanè
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