Breve guida ai film premiati agli Oscar 2025
Il successo di Sean Baker con Anora e le statuette di Adrien Brody per The Brutalist, Mikey Madison, Culkin e Saldaña
Se il 2024 era stato l’anno del successo di Oppenheimer e della grande narrazione da blockbuster di Christopher Nolan, il 2025 racconta un altro modo di fare cinema, con un immaginario altrettanto solido e mezzi contenuti. Sommando i budget The Brutalist di Brady Corbet e Anora di Sean Baker, i due film che si sono contesi i premi migliori, non si raggiungono neanche i 16 milioni (9,6 per il film di Corbet, 6 per quello di Baker), ovvero meno di un settimo del costo del film di Nolan che arrivava a 100 milioni di dollari. Si può fare grande cinema con pochi soldi, sembra dirci l’Academy, senza per questo rinunciare all’intensità dell’esperienza o alla grandiosità della visione. Un plauso all’industria indipendente e alla semplicità e solidità delle narrazioni (Conclave, A Real Pain), senza dimenticare l’aspetto storico, politico (Io sono ancora qui) e sociale, con Emilia Pérez che porta a casa due Oscar nonostante le controversie. Ma adesso quale film merita di essere visto (o rivisto) in sala? Di certo l’Oscar al miglior documentario No Other Land, notevole racconto del conflitto israelo-palestinese vissuto in prima persona dai reporter Basel Adra e Yuval Abraham, uno palestinese l’altro israeliano, premiato con grande attenzione politica come fu lo scorso anno per il documentario a 20 Days in Mariupol, che raccontava l’invasione russa in Ucraina. Ma oltre al film di Adra e Abraham, quali altri? Ecco il nostro breve manuale critico, in ordine alfabetico, per orientarsi tra i film che hanno ottenuto i riconoscimenti più importanti.
Anora di Sean Baker ★★★
Oscar: Miglior film, regia, attrice protagonista, sceneggiatura non originale, montaggio
Regia: Sean Baker
Cast: Mikey Madison, Mark Eydelshteyn, Jurij Borisov, Karren Karagulian, Vache Tovmasyan
Guarda il trailer ► https://www.youtube.com/watch?v=nKq-ZLS69yc
La spogliarellista Anora (M. Madison) parla russo e per questo il proprietario dello strip club in cui lavora le affida Vanja (M. Eydelshteyn), viziato figlio di un oligarca, che si invaghisce di lei e le chiede di fargli compagnia dietro lauto compenso per una settimana. Durante una fuga a Las Vegas i due finiscono per sposarsi, ma presto la famiglia si oppone e Anora viene trascinata in giro per New York dagli scagnozzi Toros (K. Karagulian), Garnik (V. Tovmasyan) e Igor (J. Borisov), alla ricerca dello scomparso Vanja per costringere i due novelli sposi a firmare le carte del divorzio. Consacrazione di due decenni di cinema indipendente per Sean Baker, che esplose nel 2015 con Tangerine, storia di una prostituta trans filmata interamente in iPhone, Anora si immerge nel complicato mondo a cavallo tra gli strip club e il sesso a pagamento con la grande capacità di raccontare da vicino i propri personaggi con onestà e senza moralismi. Con una regia semplice e avvolgente, Sean Baker conferma la forza del suo sguardo empatico che si posiziona un passo indietro rispetto al mondo che racconta, pur in un’opera inferiore ai precedenti Red Rocket e Un sogno chiamato Florida e con una mezz’ora di esubero che sembra ormai un canone del cinema contemporaneo (in cui un film sembra non poter essere un film se non dura almeno due ore) che in questo caso evidenzia l’esilità e, bisogna dirlo, la banalità dello spunto narrativo. Mikey Madison vince a sorpresa sulla Demi Moore di The Substance, in un’interpretazione naturale e coinvolgente esaltata dalla bravura dei due contraltari maschili, in particolare di Jurji Borisov (più silenzioso e più bravo di lei) nella parte malinconica di Igor. Quattro Academy Award per Baker che scrive, monta, dirige e produce il film e viene riconosciuto in tutte le categorie, dopo i premi come miglior regista dalla Directors Guild of America e come miglior film dalla Producers Guild of America che spesso anticipano il successo agli Oscar. Palma d’oro a Cannes.
The Brutalist di Brady Corbet ★★★½
Oscar: Miglior attore protagonista, fotografia, sceneggiatura colonna sonora
Regia: Brady Corbet
Cast: Adrien Brody, Guy Pearce, Felicity Jones, Alessandro Nivola
Guarda il trailer ► https://www.youtube.com/watch?v=nKq-ZLS69yc
L’architetto ebreo László Tóth (A. Brody), scampato al campo di concentramento di Buchenwald e separato dalla moglie Erzsébet (F. Jones), emigra negli Stati Uniti alla ricerca di un futuro. Nella difficile vita da immigrato nel dopoguerra viene aiutato dal cugino Attila (A. Nivola), che lo ospita in una stanza del suo negozio di mobili e gli fa curare piccole commissioni, ma tutto cambia quando il ricco imprenditore Harrison Van Buren (G. Pearce) scopre per caso che in Ungheria prima della seconda guerra mondiale Tóth era un celebre architetto e vede nelle sue opere le potenzialità di una nuova sensibilità brutalista. Con un impianto scenografico e visivo monumentale, The Brutalist attraversa il secondo Novecento dalla prospettiva più dolorosa, quella dei sopravvissuti agli orrori della guerra. Un film sul talento e sull’ambizione, certo, ma soprattutto un’opera sul segno indelebile che le cicatrici lasciano sui corpi e sulle menti di chi sopravvive. Nell’incarnare il doloroso conflitto che abita László, Adrien Brody replica la grande intepretazione de Il pianista e strappa il secondo Oscar al favorito Chalamet, in un cast in cui spicca un multiforme Guy Pearce nel ruolo di Harrison. L’opera terza di Brady Corbet, pur minata nel secondo tempo da una scrittura che (come il suo protagonista) sembra indecisa sulla direzione da prendere, è un’affermazione della potenza immaginativa del cinema in grado di regalare momenti di rara bellezza: l’oscuro arrivo in nave, il lungo dialogo sulle poltrone rosse durante la festa a casa di Harrison, l’esplosione del vagone del treno che svanisce in una nuvola nel cielo. Oltre a Brody, Oscar alla fotografia per le luci in VistaVision di Lol Crowley e all’imponente e fantasmatica colonna sonora di Daniel Blumberg, che assieme al montaggio di Dávid Jancsó contribuisce a creare un’immersione totale nell’universo del film. Leone d’argento alla miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia e Golden Globe al miglior film drammatico, miglior attore ad Adrien Brody e miglior regista a Brady Corbet, che per la qualità e l’originalità del suo sguardo avrebbe meritato anche l’Oscar.
Conclave ★★★
Oscar: Miglior sceneggiatura non originale
Regia: Edward Berger
Cast: Ralph Fiennes, Stanley Tucci, John Lithgow, Sergio Castellitto, Isabella Rossellini, Lucian Msamati, Carlos Diehz
Guarda il trailer ► https://www.youtube.com/watch?v=F0fy5iD3joA
La morte improvvisa di papa Gregorio XVII apre al conclave guidato dal decano Thomas Lawrence (R. Fiennes). Le fazioni si dividono tra i sostenitori del progressista statunitense Aldo Bellini (S. Tucci), dei conservatori Joshua Adeyemi (L. Msamati), nigeriano, e Joseph Tremblay (J. Lithgow), canadese, con l’ombra lunga del reazionario taliano Goffredo Tedesco (S. Castellitto). Lawrence, in crisi di fede e egli stesso papabile che rifiuta il consenso degli altri cardinali, deve gestire una lotta politica senza esclusione di colpi, fatta di segreti, trame e screditamenti. Ispirato all’omonimo romanzo dell’autore di Fatherland (1992) e Enigma (2016) Robert Harris, Conclave si inserisce nella lunga serie di opere che si addentrano nello iato complicato e affascinante che sta tra la morte di un papa e l’elezione di un altro, scegliendo l’eleganza visiva e la solidità narrativa e interpretativa come chiavi per l’efficacia della propria rappresentazione. Del successo del precedente Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022), che vinse quattro Oscar, l’austriaco Edward Berger riprende la grande compostezza formale circondandosi di un comparto artistico in gara di bravura: la cupa fotografia di Stéphane Fontaine, le tesissime musiche di Volker Bertelmann, il montaggio al millimetro di Nick Emerson. I nodi della scrittura e i dialoghi puntuali, interpretati da un cast straordinario (Fiennes, Tucci, Lithgow, Msamati su tutti), sono intrecciati con grande maestria, dosando perfettamente le piccole svolte narrative, tutte tranne quella finale che è tanto mal preparata da risultare astratta, per quanto aderente al romanzo. Nonostante questo (o forse proprio per il tema di genere al centro di questa svolta caro al mondo dello spettacolo) Peter Straughan vince l’Oscar alla sceneggiatura non originale, che conferma il successo ottenuto con la vittoria del Golden Globe e del Bafta. Una nota per il grande contributo delle maestranze italiane al film, girato tra strade e monumenti di Roma e gli studi di Cinecittà: non solo le interpretazioni di Castellitto e Rossellini ma anche il lavoro dei reparti di produzione, regia, scenografia, fotografia, stunt, effetti speciali, di truccatori e parrucchieri, di macchinisti e elettricisti. La dimostrazione della qualità del lavoro cinematografico italiano che il governo Meloni non tutela e non rispetta, con un anno e mezzo di riscrittura della legge cinema (con il ministro Sangiuliano prima e il ministro Giuli poi) che sta lasciando a casa il 70 percento del settore, disinteressandosi del futuro di migliaia di lavoratori.
Emilia Pérez ★★
Oscar: Miglior attrice non protagonista, canzone originale
Regia: Jacques Audiard
Cast: Zoe Saldaña, Karla Sofía Gascón, Selena Gomez
Guarda il trailer ► https://www.youtube.com/watch?v=kb51Hh9kgTA
Il narcotrafficante messicano Manitas Del Monte (K.S. Gascón) recluta l’avvocata Rita Moro Castro (Z. Saldaña) ricoprendola d’oro per lavorare in segreto alla ricerca del medico adatto e alla creazione della nuova identità che assumerà una volta completata la transizione verso il corpo femminile che ha sempre desiderato. Diventa così Emilia Pérez, nuova portavoce messicana delle vittime del narcotraffico. Con una storia surreale, canzoni e coreografie kitsch tutt’altro che memorabili – escluse la sequenza d’apertura e El Mal, che non a caso vince l’Oscar alla miglior canzone – e una disorganicità narrativa che crea una confusione rara, ad Emilia Pérez serve un grandissimo regista per trarre da tutti questi elementi un bel film: evidentemente, questo regista non è Jacques Audiard. Oltre ai limiti narrativi e a numerose altre criticità, resta una grande questione di fondo: si può accettare l’idea che tutte le nefandezze compiute da una persona prima della transizione svaniscano e si redimano con frasi e gesti nient’altro che ipocriti (come dire “non ero ancora me stessa” o farsi portavoce delle vittime delle azioni che Manitas stesso aveva commesso)? Un interrogativo irrisolto che fa il paio con il dilemma morale dell’avvocata onesta che sposa la causa del male per il denaro e poi viene raccontata come una paladina dei diritti civili. Travolta da un caso internazionale per vecchi tweet poi cancellati, la protagonista Karla Sofía Gascón – prima trans candidata all’Oscar più per rappresentazione che per i meriti di un’interpretazione non indimenticabile – ha dato il via ad un caso ridicolo interno alla produzione del film con Netflix che l’ha esclusa dalla promozione, Audiard che si è alternato tra gratitudine e condanna, Zoe Saldaña che in un discorso imbarazzante al momento della vittoria dell’Oscar ha ringraziato tutti tranne la co-protagonista del film. Prix d’interprétation féminine collettivo al cast, che comprende al festival di Cannes.
Io sono ancora qui ★★½
Oscar: Miglior film internazionale
Regia: Walter Salles
Cast: Fernanda Torres, Selton Mello
Guarda il trailer ► https://www.youtube.com/watch?v=kb51Hh9kgTA
Storia vera della scomparsa del deputato del partito laburista brasiliano Rubens Paiva (S. Mello) e del sequestro della moglie Eunice (F. Torres) da parte della dittatura militare, Io sono ancora qui è una pellicola intensa in cui un cast corale, che interpreta la numerosa famiglia Paiva, mette in scena le pagine più buie del Novecento in Brasile. La storia si ispira al romanzo Sono ancora qui del figlio Marcelo Rubens Paiva, pubblicato nel 2015 e uscito in Italia nel 2025 per La Nuova Frontiera, ma l’adattamento sembra raccontare le vicende indeciso sulla propria identità. Un film sulla violenza della dittatura? O sulla memoria di una famiglia? Più di tutto, sembra voler essere un racconto della resistenza di una donna per ottenere la verità, ma il film sceglie di non mostrare gli anni e le azioni centrali del suo impegno. Così come Eunice fa con i suoi figli, anche Io sono ancora qui sembra voler nascondere ai propri spettatori la parte più importante del percorso della sua protagonista: ci sono i sequestri, certo, ma ci sarebbe soprattutto il lungo trentennale percorso che successivamente la porta a laurearsi in giurisprudenza per rivendicare la verità sulla scomparsa del marito. Il risultato è un film intenso, diretto con bravura e coinvolgimento (da ex vicino di casa e amico dei figli della famiglia Paiva) dal brasiliano Walter Salles – già regista de I diari della motocicletta (2000) e di On the Road (2012) – e recitato benissimo da un cast affiatato in grado di far sentire lo spettatore parte della famiglia, ma che ha nella scrittura di Murilo Hauser e Heitor Lorega la parte più fragile. Oscar al miglior film internazionale, primo nella storia per il Brasile, anche grazie allo scandalo che ha investito la protagonista di Emilia Pérez Karla Sofía Gascón.
A Real Pain ★★★
Oscar: Miglior attore non protagonista
Regia: Jesse Eisenberg
Cast: Jesse Eisenger, Kieran Culkin
Guarda il trailer ► https://www.youtube.com/watch?v=lMp79UBWpu4
David (J. Eisenberg) prende un volo insieme al cugino Benji (K. Culkin) per prendere parte ad un tour guidato in Polonia, alla ricerca delle radici della propria famiglia di ebrei polacchi. Nel loro percorso tra i monumenti di Varsavia, il ghetto e il cimitero ebraico di Lublino e il campo di concentramento di Majdanek, i due cugini si riavvicinano in vista della destinazione ultima del loro viaggio: la casa dove era cresciuta loro nonna da poco scomparsa. Con la concisione narrativa che contraddistingueva il suo esordio Quando avrai finito di salvare il mondo (2022), Jesse Eisenberg scrive e dirige il suo secondo film di cui è co-protagonista insieme a Kieran Culkin, attore fin dall’infanzia nel film che rese celebre il fratello maggiore Macaulay Culkin Mamma ho perso l’aereo e poi esploso nel ruolo di Roman Roy nella serie tv Succession. La strana coppia di Jesse e Kieran, David e Benji, porta lo spettatore lungo un percorso di indagine del dolore in cui entrambi gli attori, serviti da una scrittura brillante, sono in gara di bravura – Eisenberg sotto, Culkin sopra le righe – e si confrontano con onestà, profondità e ironia sul proprio lutto, sul tragico passato della famiglia, su loro stessi. Impossibile non affezionarsi ai due cugini e alle loro vicende, raccontate con freschezza interpretativa e con una regia semplice e puntuale, ma il punto d’arrivo del lungo tragitto che A Real Pain sceglie di non indagare – la casa originaria della nonna per cui hanno percorso migliaia di chilometri e dove non pensano neanche di entrare – sembra tradire un lavoro di superficie, in cui il dolore si indaga senza attraversarlo, senza tentare di comprenderlo e di metabolizzarlo davvero. Premio Bafta alla miglior sceneggiatura per Jesse Eisenberg e al miglior attore non protagonista per Kieran Culkin, che strappa anche il Golden Globe e il premio Oscar per l’esplosiva interpretazione del bizzarro e conflittuale, tagliente, spassoso e infine straziante personaggio di Benji.
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