Breve guida ai film premiati agli Oscar 2019
Green Book, Black Panther, Bohemian Rhapsody, Roma di Alfonso Cuarón e La favorita di Yorgos Lanthimos
La notte degli Oscar 2019, oltre alle solite polemiche e al video dell’esibizione di Bradley Cooper e Lady Gaga per la miglior canzone “Shallow” da A Star Is Born diventato virale, come ogni anno porta con sé anche il lato positivo del premio cinematografico più ambito del mondo: tanti film tornano in sala per qualche settimana e potremo finalmente vederli o rivederli. Ma come sono davvero questi film tanto celebrati, come scegliere quale andare a vedere? Ecco qui un breve manuale critico per guidarvi, in ordine alfabetico, tra i film che hanno ottenuto i riconoscimenti più importanti.
Black Panther ★★½
Oscar: Migliori costumi, miglior scenografia, miglior colonna sonora
Regia: Ray Coogler
Cast: Chadwick Boseman, Michael B. Jordan, Lupita Nyong’o, Forest Whitaker, Andy Serkis
Guarda il trailer ► www.youtube.com/watch?v=Jd8rl7_u2As
Il Wakanda è una nazione africana apparentemente tra le più povere, ma dietro la parvenza di paese del terzo mondo si nasconde una delle società tecnologicamente più avanzate della Terra grazie al vibranio, un minerale unico alla base dell’innovazione e del progresso wakandiano. La morte del re fa ricadere sulle spalle dell’erede al trono T’Challa (C. Boseman) la responsabilità di guidare il paese tra i conflitti interni e gli interessi esterni per il vibranio, che mettono a rischio il segreto e la sicurezza del Wakanda. Recitato benissimo da tutto il cast principale e dai comprimari di spessore – il cattivo Klaue di Andy Serkis, l’agente CIA di Martin Freeman, la madre fiera di Angela Bassett – Black Panther non è soltanto il primo film di supereroi della storia del cinema a ricevere una candidatura per il miglior film, ma è anche uno dei pochi del genere che va oltre la semplice dicotomia bene/male costruendo personaggi di notevole complessità: il padre amorevole ma fratricida, l’antagonista spietato dal passato doloroso. La cosa più interessante del film è proprio la verosomiglianza e la profondità di sfumature nei rapporti tra i suoi protagonisti, che si aggiungono alla riflessione sociale di stringente attualità – apriamo la nostra civiltà ai cittadini del mondo o li “aiutiamo a casa loro”? – e al dinamismo registico delle sequenze d’azione. Nonostante questo, si resta piuttosto perplessi di fronte ai tre premi Oscar vinti dal film: una scenografia non eccezionale perlopiù ricostruita digitalmente, dei costumi interessanti unicamente per la tuta del protagonista e per la caratterizzazione delle tribù wakandiane, una colonna sonora banale e dimenticabile non diversa da tanti altri film Marvel.
Bohemian Rhapsody ★★
Oscar: Miglior attore protagonista, miglior montaggio, miglior montaggio sonoro, miglior missaggio sonoro
Regia: Bryan Singer
Cast: Rami Malek, Lucy Boynton, Gwilym Lee, Ben Hardy, Joseph Mazzello
Guarda il trailer ► www.youtube.com/watch?v=K1buCCC7e48
La storia della nascita dei Queen e di Freddie Mercury (R. Malek), che dal Farrokh Bulsara figlio d’immigrati pakistani dai denti sporgenti come molti lo vedevano (ma in realtà con genitori indiani di etnia parsi) diventa una delle stelle della musica rock mondiale. Un biopic apologetico della figura di Mercury, in cui le difficoltà umane e sociali del leader dei Queen fagocitano tutto il resto. A ben guardarlo viene da chiedersi cos’è, Bohemian Rhapsody. Un film sui Queen? E allora perché l’unico suo fulcro è il cantante della band? Un film su Freddy Mercury? E allora perché si taglia fuori la parte più drammatica (e interessante) del suo vissuto? La pellicola diretta da Bryan Singer – fatto sparire per le accuse di violenza sessuale – sfrutta in modo piuttosto ipocrita tutte le sottotrame della vita di Mercury per dare corpo a un banale racconto di un’ascesa artistica con il fantasma del drammatico finale che tutti conosciamo: l’omosessualità, la malattia, il conflitto con la famiglia sono soltanto di servizio per una banalissima success story. Il lavoro di mimesi di Rami Malek, premiato con l’Oscar, non basta a sostenere un film che rimane in superficie, con una serie di personaggi/cartolina che vivono soltanto in funzione del suo protagonista e che si tiene insieme grazie alle canzoni dei Queen – scandaloso il premio al montaggio, che appare poco più che il taglia e incolla di un brutto videoclip. E nonostante la bravura di Malek, resta fissa in testa l’impressione che per tre quarti di film la sua interpretazione non sia altro che ballettare e muovere la bocca per finta come nei peggiori playback della Rai. Forse l’unico senso di Bohemian Rhapsody è la musica, e la versione migliore del film non è tanto quella classica con i suoi dialoghi piuttosto inutili, ma il karaoke sing along uscito in sala dove il pubblico ha potuto scatenarsi fingendo di essere ancora una volta ad un concerto di Freddy Mercury, come un vecchio greatest hits da ricantare a squarciagola in macchina. È questa probabilmente la ragione per cui l’Academy ha voluto premiarlo anche con gli Oscar a miglior montaggio sonoro e miglior missaggio sonoro: come greatest hits, in effetti, è mixato benissimo.
La favorita ★★★
Oscar: Miglior attrice protagonista
Regia: Yorgos Lanthimos
Cast: Olivia Colman, Rachel Weisz, Emma Stone, Nicholas Hoult
Guarda il trailer ► www.youtube.com/watch?v=j5hVe5rK7gc
Trame e giochi di potere a palazzo della regina Anna (O. Colman), con le favorite Sarah Churchill detta Lady Marlborough (R. Weisz) e la cugina Abigail Hill (E. Stone) che si contendono i favori della sovrana mentre il paese deve affrontare le restrizioni dovute alla guerra con la Francia. Nel mettere in scena la bulimia di potere tutta al femminile del suo terzo film in lingua inglese, il greco Lanthimos sceglie tre attrici straordinarie – tutte candidate all’Oscar, vinto da Olivia Colman per la sua dolorosa interpretazione della regina Anna. La regia sincopata, che frammenta, rallenta e spezza le sequenze, riesce al contempo a raccontare con grande serietà e a rompere con il comico e il grottesco una storia di per sé profondamente drammatica. Il triangolo lesbico della sovrana, prima con Sarah e poi con Abigail, non è vissuto mai come un futile gioco sessuale unicamente volto al potere, ma viene rappresentato in tutte le sue sfumature: l’arrivismo doloroso di Abigail, la sofferenza reale di Lady Marlborough, l’infinita solitudine della regina. Più che svilirne l’originalità e tacciare la pellicola di essere un semplice calco, citare gli esempi altissimi di Barry Lyndon di Stanley Kubrick e de I misteri del giardino di Compton House di Peter Greenaway – la scelta della colonna sonora vivaldiana fa peraltro eco a quella che Michael Nyman compose per il film – non fa che confermare il livello di spessore e complessità su cui si pone l’opera di Lanthimos. Di tutte le dieci candidature de La favorita rimane piuttosto scandaloso non premiare il lavoro meraviglioso per le scenografie di Fiona Crombie e i costumi della tre volte premio Oscar Sandy Powell, preferendo ad entrambi Black Panther.
Leggi la nostra recensione qui ► La favorita di Yorgos Lanthimos
Green Book ★★★½
Oscar: Miglior film, miglior attore non protagonista, miglior sceneggiatura originale
Regia: Peter Farrelly
Cast: Viggo Mortensen, Mahershala Ali, Linda Cardellini
Guarda il trailer ► www.youtube.com/watch?v=GmqdPdCC5CQ
Nell’America razzista degli anni Sessanta l’italoamericano Tony Vallelonga detto Tony Lip (V. Mortensen) viene assunto dal pianista nero Don Shirley (M. Ali) come autista per un viaggio nel profondo sud degli Stati Uniti. La sua guida è il Green Book, un libro di viaggio che indica i luoghi del sud che gli afroamericani possono frequentare senza rischiare ripercussioni. Nonostante Don Shirley sia uno dei pianisti più affermati del paese e suoni nei salotti bene dei bianchi più ricchi degli States, il green book vale anche per lui. Il regista Peter Farrelly – veterano insieme al fratello Bob dei film demenziali più famosi e più brutti degli ultimi vent’anni: Scemo & più scemo, Tutti pazzi per Mary, Lo spaccacuori – mette in scena con grande eleganza un film semplice nella struttura quanto delicato e sfumato nei rapporti tra i personaggi. Viggo Mortensen e Mahershala Ali, secondo Oscar al miglior attore non protagonista dopo quello per Moonlight, sono in gara di bravura e nel loro viaggio a bordo della scintillante Cadillac carta da zucchero guidano lo spettatore dentro le vite dei personaggi, che si incontrano e si scontrano per le strade, i teatri e i ristoranti dell’America del Sud. Scritto con eccezionale solidità e delicatezza dal figlio di Tony Nick Vallelonga, Brian Hayes Currie e dallo stesso Farrelly – Oscar alla miglior sceneggiatura originale meritato tanto quanto quello per la sceneggiatura non originale andato a Blackkklansman di Spike Lee – Green Book è una storia di integrazione e di una profonda quanto conflittuale amicizia virile che attraverso il dialogo tra due uomini racconta le ferite di un paese intero, e indica una strada per risanarle.
Roma ★★★★
Oscar: Miglior regia, miglior fotografia, miglior film straniero
Regia: Alfonso Cuarón
Cast: Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Marco Graf, Daniela Demesa
Guarda il trailer ► www.youtube.com/watch?v=6BS27ngZtxg
Un anno della domestica Cleo (Y. Aparicio) al servizio della famiglia della signora Sofia (M. de Tavira) nel quartiere Colonia Roma della Città del Messico dei primissimi anni Settanta: dal conflitto interno ai membri della famiglia alla gravidanza inaspettata che mette in crisi la relazione di Cleo e la sua vita di domestica. Dopo il successo puramente tecnico del precedente Gravity, Cuarón conferma il suo eclettismo virando su un’opera intima, profondamente personale nello sguardo e nella storia che racconta – quella della sua infanzia e della sua domestica. Con una regia solida ma con tocco leggero Cuarón fa di Roma una poesia per immagini: una poesia rarefatta che rivive nel grande respiro delle inquadrature, nella diradazione dei suoni, nella delicatezza del bianco e nero. Le interpretazioni tutte straordinarie per verità e armonia, compresa la debuttante Yalitza Aparicio nominata come miglior attrice protagonista, sono il frutto della direzione del regista messicano e di una sceneggiatura che nella prima parte ci immerge nell’universo del film e nella seconda intreccia le trame narrative con rara eleganza, finendo per tessere un maestoso arazzo il cui nodo principale è la sequenza meravigliosa che accosta una dimensione personale come la scelta della culla al conflitto sociale che scoppia nelle strade messicane (le acque che si rompono, la guerriglia in strada, la minaccia violenta del padre del bambino che Cleo porta in grembo). Dopo il Leone d’Oro a Venezia e il successo planetario l’Oscar alla miglior regia e al miglior film straniero sembravano una formalità, meno il premio alla splendida fotografia curata dallo stesso Cuarón – il primo film del regista messicano in quasi trent’anni (se si esclude Harry Potter e il prigioniero di Azkaban) senza le luci del grande Emmanuel Lubezki, premio Oscar per tre anni consecutivi con Gravity, Birdman e Revenant.
Leggi la nostra recensione qui ► Roma di Alfonso Cuarón
Se la strada potesse parlare ★★★
Oscar: Miglior attrice non protagonista
Regia: Barry Jenkins
Cast: Kiki Layne, Stephan James, Regina King
Guarda il trailer ► www.youtube.com/watch?v=uT4uNFZnJaw
Negli Stati Uniti degli anni Settanta, i giovani afroamericani Tish (K. Layne) e Fonny (S. James) vivono la loro storia d’amore che intreccia le difficoltà di una maternità inaspettata alle persecuzioni della vita di minoranza, quando Fonny viene incarcerato per uno stupro che molto probabilmente non ha commesso. La famiglia di Tish con la madre Sharon (R. King) si battono per scagionare il ragazzo e dare un futuro alla famiglia che sta per nascere. Seppure meno potente del precedente Moonlight, premio Oscar al miglior film nel 2017, Se la strada potesse parlare conferma l’impronta autoriale di Jenkins e la forza visiva del suo sguardo, qui concentrato sulle ingiustizie sociali subite dalla minoranza nera raccontate nell’omonimo romanzo di James Baldwin da cui il film è tratto. La tematica sociale si intreccia alla relazione della coppia di protagonisti – Kiki Layne e Stephan James, due volti che restano negli occhi dello spettatore – raccontati con delicatezza e candore. Quando sono in scena insieme, la pellicola vive i tempi dilatati e fiabeschi del sentimento amoroso, scontrandosi con le sequenze di stampo sociale in cui emerge il conflitto tra visioni progressiste e retrograde interne alla stessa minoranza che il film racconta. Nel complesso contesto storico degli anni Settanta americani in cui Se la strada potesse parlare è ambientato, si distingue l’afflato universale del personaggio interpretato da Regina King, madre comprensiva e al contempo severa che incarna la consapevolezza e il senso di responsabilità del ruolo materno.
In collaborazione con Antonio Costa
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