Anne e le altre
L’interruzione di gravidanza come atto rivoluzionario nel cinema e nella società contemporanea
Il 24 giugno 2022, la Corte Suprema statunitense ha ribaltato la storica sentenza Roe contro Wade che nel 1973 aveva legalizzato l’aborto negli Usa. Negli Stati Uniti per le donne non è più un diritto costituzionale interrompere la gravidanza e i singoli stati saranno liberi di decidere sul corpo e sulle scelte femminili. Un provvedimento forte, dal tono integralista. Texas, Missouri, South Dakota, Indiana hanno immediatamente abolito l’aborto, così milioni di donne per porre fine alla gravidanza devono affrontare viaggi di migliaia di chilometri, ricorrere alle mani più o meno capaci di mammane, o farlo da sole, a casa, di nascosto, come succedeva decenni fa. In Ungheria, il governo di Viktor Orbán ha varato una norma che obbliga gli operatori sanitari a far ascoltare il battito cardiaco del feto alla gestante prima di accordare il permesso per l’interruzione. In molte altre parti del mondo abortire è illegale.
L’interruzione volontaria di gravidanza, in Italia, non è un diritto, perché la maternità è un valore talmente radicato che l’aborto suona quasi una concessione
In Italia, la vittoria alle elezioni del 26 settembre 2022 di Fratelli d’Italia e della sua leader Giorgia Meloni ha scosso parte dell’opinione pubblica perché simbolo di qualcosa di preciso: il suo partito promuove un’idea di Italia fondata su Dio, patria, famiglia che minaccia la legge 194 (22 maggio 1978) che tutela il diritto all’aborto. Meloni dice di non voler toccare la legge ma di voler semplicemente dare alle donne il diritto di non abortire, sottolineando quanto spesso la questione economica incida sulla scelta. Il piano di Meloni appare trasparente, applicare la 194 alla lettera, ma il problema sta alla base. L’interruzione volontaria di gravidanza, in Italia, non è un diritto, è ancora difficile metterla in atto perché la maternità è un valore talmente radicato che la donna incontra spesso ostacoli, l’aborto suona quasi una concessione, elargita di volta in volta, di caso in caso. Nel nostro paese infatti l’obiezione di coscienza fra i sanitari è altissima e in molte zone e in molte grandi città non ci sono i servizi. A questa disapplicazione si aggiunge anche la presenza sempre più invasiva dei volontari dei movimenti anti-scelta – non si possono non citare il Piemonte, che ha stanziato 400mila euro per i fondi pro-vita, e il Molise, la regione con il massimo tasso di obiettori tra personale medico e non. Il che significa semplicemente rendere la legge 194 inapplicabile.
Per ricordare cosa significhi un vuoto legislativo, quante donne siano morte per l’assenza di una legge, c’è il cinema. Nella Francia del 1963, d’aborto si muore o si rischia il carcere, lo racconta La scelta di Anne – L’ Évenemént (2021) di Audrey Diwan, Leone d’Oro a Venezia ’78 tratto da L’evento del premio Nobel Annie Ernaux, un romanzo autobiografico che porta sulla carta la testimonianza di cosa significhi per una studentessa giovane e nubile porre fine ad una gestazione indesiderata. Anne (Anamaria Vartolomei) è una ventitreenne come tante, con molti sogni, studia lettere e pensa al futuro. Tutto è sul punto di crollare quando, dopo un rapporto con un uomo, scopre di essere incinta. Il controllo degli slip senza macchia e la pagina bianca dell’agenda in cui segna l’inizio delle mestruazioni sono segni, la certezza arriva con l’esame del medico. In lei solo un pensiero, interrompere la gravidanza. Un giorno lo vorrà, ma ora non potrebbe amarlo perché per lei quella nascita sarebbe la fine di ogni sua ambizione. Inizia un calvario senza fine, un viaggio impossibile. Il corpo si trasforma lentamente ma inesorabilmente: la protagonista si guarda allo specchio e, nella pancia che cresce, trova un segno di quell’intruso che usurpa il suo spazio interno. Inizia così uno scontro tra lei e ciò che la abita, una “cosa” che resiste a tutto e lotta tanto quanto la ragazza. È un film dell’orrore, umanissimo e spietato perché Anne è sempre più disperata e sola. Si avvia in un’oscurità terrificante da cui potrà uscire soltanto alla fine, oscurità che lo rende anche thriller psicologico grazie all’atmosfera cupa e alla macchina da presa alle spalle della protagonista. Anne viene crudelmente presa in giro dal primo medico che interpella, chiede aiuto ma non lo riceve, sussurra alle amiche il suo stato e le voltano le spalle. Si trova di fronte a muri che sembrano invalicabili, eppure lei, difforme dall’ordine costituito, continua ad andare avanti. Mentre intorno gli altri vivono seguendo la scansione normale dei giorni, per lei è diverso, la sua è una corsa contro il tempo che viene cadenzato dal numero delle settimane di gestazione, che compaiono inesorabili sullo schermo.
Anne è pronta a sopportare: meglio morire che vivere in una condizione di cui sarebbe prigioniera
Ernaux usa la scrittura in modo pericoloso non per i contenuti ma per il modo in cui la parola squarcia il velo dell’omertà e penetra nel profondo, facendo emergere il contesto sociale, il sentire delle donne, vittime del mondo patriarcale e del moralismo medico. La regista Audrey Diwan fa la stessa cosa mettendo chi guarda alla prova, fisicamente e psicologicamente, mostrando anche i momenti più crudi e drammatici perché l’urgenza del racconto lo impone. Lo sguardo non viene mai distolto dall’evento come accadeva nel cinema del passato, in cui l’intervento si compiva, dietro una porta, lontano. Quando Anne prova a liberarsi dell’embrione con un ferro da calza, lo spettatore è lì accanto a lei, immerso nel suo dolore e nella caparbia affermazione di voler decidere di sé anche nel momento in cui la pena è disumana. A mezzogiorno di un lunedì bussa alla porta di una mammana, si stende sul tavolo della cucina affidandosi alle sue mani esperte, la liturgia si compie. Il racconto diventa insostenibile, Anne urla il suo strazio mentre sente dentro di sé i ferri che lavorano le carni. È pronta a sopportare: meglio morire che vivere in una condizione di cui sarebbe prigioniera.
Vale lo stesso per Autumn (Sidney Flanigan), protagonista di Mai raramente a volte sempre (2020), anche in lei non c’è il minimo dubbio né vergogna. Il road movie di Eliza Hittman racconta un’odissea burocratica e di formazione, una storia di anni diversi ma in cui ci sono la stessa solitudine e disperazione. La regista ci porta nella vita di una ragazza di oggi, minorenne che scopre di essere incinta e si sente sola e giudicata, ingabbiata in un mondo che non le dà l’aiuto di cui ha bisogno. Dove vive lei, in Pennsylvania, è impossibile interrompere la gravidanza, parte così per New York con Skylar, sua cugina, l’unica a sapere il suo segreto. Affronta chilometri per raggiungere la città con un bagaglio pesante, pieno di silenzi, dettagli dolorosi e violenze raccontate poi alla dottoressa con asettica disperazione che le riga il volto. Al di là dei confini di Stato, dove è straniera, trova sicurezza e conforto. Hittman riesce con esattezza emotiva e rigore documentaristico a mostrare l’alienazione iniziale di Autumn, vittima di un maschio che abusa di lei in vari modi (forse anche la gravidanza è frutto di un rapporto non consensuale), e poi la sua lenta ma convinta autodeterminazione, al posto dei video pro-vita che in ospedale in Pennsylvania l’hanno tanto turbata, c’è la rassicurazione che ogni scelta da lei voluta è giusta.
Mai raramente a volte sempre riesce a mostrare l’alienazione iniziale di Autumn e poi la sua lenta ma convinta autodeterminazione
È la storia di un dramma anche quella di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007) di Cristian Mungiu, Palma d’oro a Cannes, in cui interrompere la gravidanza è un reato perseguibile con il carcere. Siamo nella Romania di Ceausescu, nel 1987, in cui si racconta con tragico e oscuro nitore la storia dell’aborto clandestino della giovane studentessa Gabita (Laura Vasiliu), aiutata da Otilia, che si occupa di organizzare ogni cosa in uno Stato vicino all’Inferno, dove è impossibile crescere e stare al passo con il resto del mondo. L’atto si compie in una stanza d’albergo piccola e asfittica grazie all’aiuto del Mr. Bebe, che in un dialogo emblematico metafora di una disparità di potere parla, prima dell’intervento, dei rischi medici e giudiziari, esprimendo una serie di giudizi specchio del pensiero comune. Anche Bebe, come la mammana di Anne, dà un protocollo da seguire, e la cosa appare insensata in un luogo e in una circostanza in cui legge e ordine non esistono. Gabita e Otilia sono talmente disperate da accettare di pagare in natura parte dell’intervento, sul loro volto e nei loro occhi sono sempre leggibili paura, dolore fisico e dolore esistenziale che rendono, a tratti, insopportabile la visione: Mungiu rende insostenibile l’atto in sé, raccontandolo con piani sequenza millimetrici ed ellissi sapienti. Le due donne resistono ad un mondo che le considera corpi fabbrica, grembi intesi come spazi nazionali, dove l’interruzione di gravidanza diventa un atto rivoluzionario contro la tirannia, la risposta da parte di queste cittadine consapevoli e coraggiose. È un’opera di intima disperazione che con il pedinamento (di Otilia) e la macchina fissa (su Gabita e sul suo aborto) suggeriscono la natura claustrofobica di un governo restrittivo che costringe le donne a comprare un intervento al mercato nero come fosse un pacchetto di sigarette. Mungiu, senza alcun giudizio morale, scrive un dramma politico che porta in campo, anche solo con il titolo, un conto alla rovescia per un gesto che Gabita compie pur di essere libera.
La stanza d’albergo teatro dell’aborto di Gabita in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni
Dal quadro che il cinema compone si comprende che l’aborto è una tematica complessa, una ferita ancora aperta perché la società innerva l’evento di significati che non riguardano l’aborto stesso ma religione, tradizione, ruoli che fanno del corpo femminile un campo di battaglia. Da La scelta di Anne, Mai raramente a volte sempre, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, realizzati in tempi diversi, ambientati in periodi storici e luoghi differenti, una cosa emerge con chiarezza: per una parte importante della società l’aborto è un reato contro la morale e lo Stato, e questo perché la maternità è ancora un valore radicato, un dovere a cui è quasi impossibile sfuggire. Maternità e interruzione di gravidanza vengono trattati come problemi dell’intera comunità, facendo sul corpo femminile battaglie politiche che tolgono alla singola donna la libertà di decidere. Ovunque nel mondo l’interruzione volontaria di gravidanza non ha mai smesso di essere oggetto di un’incessante guerra culturale fra sostenitori e oppositori: dove la destra tradizionalista governa si continuano a togliere diritti alle donne. Negli Stati Uniti Trump, pur non essendo più presidente, ha ridisegnato il profilo della Corte Suprema e ha contribuito ad abolire una sentenza fondamentale. Nei paesi dell’Europa centro-orientale si continuano a minare libertà e emancipazione femminile. In Italia, nonostante le rassicurazioni della premier Meloni, si presenta un ddl (per mano di Maurizio Gasparri) circa la personalità giuridica del concepito, cosa che renderebbe poi inapplicabile la 194, e vengono scelti come Ministra della Famiglia, della Natalità e delle Pari Opportunità Eugenia Roccella, per cui l’aborto non è un diritto ma una disperata via di fuga, e come Presidente della Camera Lorenzo Fontana, da sempre contro l’interruzione volontaria di gravidanza, definita «prima causa di femminicidio nel mondo».
Il cinema internazionale che racconta l’aborto fa il resoconto crudo e diretto di un’esperienza terribile, con protocolli dolorosi, corse contro il tempo, battaglie contro l’assenza di tutela
Non ci sono dubbi, il ventre delle donne è ostaggio di governi e politiche che le umiliano rendendole ancelle di scelte altrui. Anche se spesso con difficoltà, il cinema internazionale che racconta l’aborto fa il resoconto crudo e diretto di un’esperienza terribile, con protocolli dolorosi, corse contro il tempo che passa inesorabile, battaglie contro l’assenza di una tutela per chi vuole la possibilità di scegliere. Il cinema lotta attraverso storie come queste, ricordando cosa significhi una gravidanza indesiderata e quanti rischi abbiano corso le donne per autodeterminarsi, e chiedendo prepotentemente di costruire un presente più giusto per tutte le donne incinte, vicine e lontane, a cui è proibito per legge, o nei fatti, essere padrone di sé. Narrazioni e immagini, parabole tristi e disumane ma anche simboli di forza e coraggio, che tolgono ogni dubbio su ciò che è stato e che non deve succedere più e che ribadiscono come dovrebbe essere riconosciuta, per ogni donna, la libertà di decidere del proprio corpo.
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