«Amici dalla barca si vede il mondo»
1914-2014: il centenario della nascita di Luzi e degli altri ermetici fiorentini
Il 20 ottobre del 1914, esattamente un secolo fa, nasceva a Castello, allora frazione del comune di Sesto Fiorentino, il poeta Mario Luzi, il rappresentante più celebre di quella che il critico ed amico Oreste Macrí ha definito la terza generazione del Novecento poetico italiano, secondo una proposta di classificazione – esemplificata in vari scritti, tra cui il più importante è Le generazioni nella poesia italiana del Novecento – soggetta a non poche critiche da parte di una vasta schiera di studiosi della letteratura. La terza generazione, identificata appunto nel nome di Luzi, seguirebbe la prima, raccolta attorno ad Ungaretti, e la seconda, raccolta attorno a Montale, e precederebbe la quarta di Zanzotto. Lo stesso Luzi ed altri poeti inclusi nella classificazione proposta dal Macrí, come Vittorio Bodini, hanno negli anni espresso le proprie perplessità, ravvisando forse in tale concezione dell’esperienza poetica un eccesso di fervore metodico.
Bisogna tenere in considerazione, però, che lo stesso Macrí aveva premesso fin da subito il carattere «empirico e pericoloso» della teoria, carattere d’altra parte inevitabile quando «dal piano culturale si vogliano inferire concetti validi per il piano eternale della poesia», e allo stesso tempo il coinvolgimento diretto dei poeti nel fiume di esperienze, di poesia come di vita, che il critico si assume la responsabilità di filtrare, con lo sguardo attento di chi osserva i flutti della piena dalle sponde. Tralasciando dunque le contestazioni della critica, il concetto di generazione proposto dal Macrí torna utile per avanzare alcune considerazioni, a cento anni di distanza, sulla genesi del Luzi poeta e uomo, e insieme sulla valenza storica di tutto un gruppo di giovani letterati, la terza generazione fiorentina, appunto, che si trovò a vivere in un periodo più che mai travagliato. Una generazione bombardata dai tonfi sordi della Storia, della retorica di regime, dal destino altrettanto tetro, si potrebbe dire, di quello dei soldati del 14-18, generazione questa assordata dai tonfi di ben altre bombarde. Nell’ottica di una resistenza privata va intesa, in un certo senso, l’opera luziana degli esordi. In primo luogo considerandone l’attività di traduttore infaticabile – caratteristica comune, questa, a tutti gli amici poeti. Traduzione che non è da intendere come la si intende volgarmente oggi, ovvero quasi una semplice trascrizione dei vocaboli, soggetta al diktat delle esigenze editoriali e commerciali, e volta alla fruizione di un testo anche da parte di lettori che non avrebbero potuto leggerlo nella sua lingua di origine. Tradurre, per Luzi come per gli altri, più che trascrivere significa riscrivere. La riscrittura è un processo di altissimo valore culturale, che richiede un impegno assiduo di ricerca formale e stilistica. Tradurre significa soppesare attentamente le parole, scavarle per ritrovarne la pienezza semantica, dopo che la retorica sopra ricordata aveva finito per svuotarle di significato per ridurle a contenitori-significante, buoni soltanto a far rimbombare urli e schiamazzi imperanti.
Riacquisizione del significato originario, dunque, e insieme apertura alle soluzioni formali più recenti, a un ambiente letterario più pulsante, più vivo. Allora, l’opera luziana di traduzione dei grandi contemporanei europei ricorda da vicino quella dei copisti fiorentini del XIII e XIV secolo che, avventurandosi per i sentieri inesplorati delle rime della Scuola siciliana, ispirate dai trovatori provenzali, inaugurarono la tradizione secolare della letteratura italiana. La pubblicazione di numerose antologie – prima tra tutte L’idea simbolista, che propone testi di vari autori, tra cui Rimbaud, Baudelaire, Hölderlin, Eliot – testimonia questa volontà di rinnovamento, riscrittura appunto, della poesia, che inserisce Luzi nel processo di emancipazione del simbolismo europeo in Italia, già cominciato dal nomadismo di Ungaretti e dalle letture onnivore di Montale. La vicinanza a certi aspetti della poetica dei due maestri è chiarissima fin dalla prima raccolta edita nel 1935, La barca. Come è chiarissima, allo stesso tempo, la capacità di Luzi – forte sia dell’intensa attività di traduttore, sia di una visione intimamente personale della vita e del proprio rapporto con la Natura – di allontanarsi dai modelli, di battere strade nuove, anzitutto al livello puramente fonico della scansione dei significanti, tasselli primi di cui la poesia si compone. Ecco allora che persino i versi composti in giovane età lasciano intravedere la sintesi del «nuovo ritmo luziano», individuato da Giuseppe Zagarrio nel suo ispirato studio su Luzi. Ritmo che, dice Zagarrio, «è già lontano tanto da quello del canto-inno di Ungaretti quanto da quello aspro e strozzato del dramma solare di Montale; o meglio, li inversa in sé riducendoli entrambi in una sintesi, che non dà più spazio ai toni estremi, ma perché li ha reimmersi nel fondo dell’anima o, che è lo stesso, nel fondo della vita». Reimmersione di cui si parlava prima anche a proposito delle traduzioni. Quella di Luzi è un’operazione di indagine poetica senza soluzione di continuità, attraverso le diverse forme della letteratura come attraverso le vicende di uomo, dai suoi studi universitari agli scambi del circolo di amici intellettuali che era solito frequentare il caffè in piazza San Marco.
Degli amici e maestri del circolo di Firenze, due condividono con Luzi l’anno di nascita: si tratta di Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi. Il primo conobbe Luzi fin dai primi giorni di Università, come racconta lo stesso Bigongiari nella sua autobiografia:
Nel ’32 si iscrive alla Facoltà di Lettere e comincia la spola tra Pistoia e Firenze, che durerà fino al ’38. Conosce i primi amici della generazione, primo fra tutti Leone Traverso. Ascoltando una lezione del velocissimo Lamanna, a un tratto si sente tirare per il codino da un coetaneo sconosciuto, seduto sul banco dietro: è il giovane Mario Luzi, ancora indeciso tra giù e su, tra Legge cioè, a cui è iscritto, e Lettere, così piena di jeunes filles en fleur e di promesse. E con Luzi, che saliva sullo stesso treno a Castello, comincia un lungo e mai più smesso sodalizio.
Traspare chiaramente l’aria di familiarità del gruppo fiorentino. Bigongiari, d’altra parte, fu molto vicino a Luzi per l’impegno profuso nell’indagine delle facoltà del linguaggio, volta, come quella dell’amico, al rinnovamento vitale del discorso poetico. Esemplificanti sono le sue letture e studi in campo filosofico, come il francese Jacques Derrida. Lo stesso si potrebbe dire parlando di Parronchi, che richiama Luzi soprattutto nell’attenzione particolare ai motivi tipici del movimento, inclinazione forse riconducibile ai suoi interessi artistici − Parronchi frequentava il corso di studi in Storia dell’arte. Generazione, dunque, non come sterile indice anagrafico, ma come identità di luoghi sia mentali, le letture comuni, sia fisici, ovvero la condivisa residenza fiorentina, ma anche il terribile periodo storico degli anni ’30 e ’40. Da qui il respiro di una ricerca che ha saputo accudire i primi vagiti della nuova letteratura italiana di inizio secolo, li ha cullati in mezzo alla bufera e ha potuto così allacciare le due metà del nostro Novecento poetico. In primis Luzi, custode di quell’intimo sentimento della vita che, più di tutto, permette l’indagine inesausta – basti pensare agli estremi dell’opera luziana, da La barca del 1935 alla raccolta postuma, edita nel 2009, Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime – dell’uomo e del suo rapporto col mondo, senza con questo intendere un’incidenza diretta del fatto storico, che semmai incide per vie traverse, dialetticamente, ma piuttosto un rinnovato senso di appartenenza alle cose, di creature al Creato, per dirla con termini luziani. Chissà se, dopo aver resistito al vociare delle retoriche del suo tempo, l’opera di Luzi e degli altri compagni ermetici riuscirà a resistere a quello delle rinnovate retoriche dei festeggiamenti per il centenario del primo conflitto mondiale, ritagliandosi una frequenza da cui trasmettere le sue verità: un luogo mentale, un luogo poetico, una barca, appunto. Come nei versi di Alla vita, lirica tratta dalla prima raccolta luziana:
Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che procede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti...
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