Alexander Pope

Londra, 22 maggio 1688 – Twickenham, 30 maggio 1744

Genitori cattolici e malattie invalidanti fanno di Alexander Pope un bambino eccezionalmente sensibile che presto si porta a studi vasti quanto disordinati: su Ovidio e Stazio impara da sé e in casa a far versi e da Chaucher e Dryden gli viene un desiderio di fama poetica che lo spinge a cercar nei caffè quei letterati inglesi cui, sul farsi del secolo, arridono insperate fortune: qui s’inserisce e domina il Pope, tutto intento a scherzare l’uomo in società con quel distico eroico, metro canonico della poesia narrativa inglese, di cui egli è maestro e che per lui si fa strumento di una meravigliosa varietà. Dalla dolcezza lirica dei Pastorals (1709) si passa all’ampiezza maestosa delle traduzioni di Omero (1715-26) alla disinvolta scorrevolezza delle Imitations of Horace (1733-38): qui più che altrove vibra un anelito di perfezione che, bilanciando satira e riflessione morale, adatta temi oraziani per «colpir l’umana sciocchezza a volo e cogliere i costumi al vivo mentre nascono». Se non l’idealismo dei sommi, brucia almeno in questo Pope il «fuoco» che, secondo le sue stesse parole, è la qualità distintiva di ogni vera poesia.

 

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