Aboliamo la povertà, aboliamo il futuro
Tra i proclami di Di Maio e M5S, l'ennesimo governo italiano che non pensa ai suoi figli e al suo domani
Le battaglie che emozionano e fanno infervorare gli italiani sono molte. Nel lungo elenco finiscono i marò e gli F-35, le buste biodegradabili a pagamento e la TAV, i 211 olivi espiantati per un gasdotto in Puglia e le accise sui carburanti per la guerra in Etiopia. Sono questi i temi che suscitano un livore viscerale intenso, che sgorga furente sui social aizzato dalla politica e amplificato dalla stampa. Allora una regola di riduzione del deficit diventa anch’essa un pretesto per una battaglia ideologica insensata, che non mette solo a rischio la tenuta finanziaria del paese, ma anche – e soprattutto – il suo futuro. Il governo cerca il braccio di ferro con l’Unione Europea sulla manovra, provoca apertamente, e schiera come combattenti quegli italiani che preferiscono la pensione a 62 anni anziché il lavoro per i figli.
L’Italia finisce per perdersi in battaglie inutili e le poche vittorie che raggiunge sono vittorie di Pirro. Gli sguardi si concentrano su aspetti marginali, quasi ridicoli. Prescindono da qualsiasi fonte autorevole di informazione, perché correa di corroborare i poteri forti. Ed è nel concentrarsi su questi dettagli della vita politica che perde di vista completamente il quadro generale. Non ci accorgiamo che mentre il governo si interessa dei fattorini in bicicletta (che costituiscono circa lo 0.0004% della forza lavoro italiana), la disoccupazione giovanile resta ben oltre il 30%, meglio solo di Grecia e Spagna tra i 28 stati dell’Unione Europea. Invece di affrontare il problema di come saranno pagate le pensioni, dinanzi ad un indice di dipendenza che vede un numero sempre crescente di anziani per ogni giovane, l’Italia si interessa di come sarà abbassata l’età pensionabile. Una cosa è certa: dal momento che il sistema pensionistico si regge quasi esclusivamente su un patto primordiale di solidarietà intergenerazionale, in cui il lavoro dei giovani paga le pensioni dei genitori, il rischio del collasso non è trascurabile.
Ma non ci sono solamente i rischi del sistema pensionistico: quasi il 10% degli Italiani ha scelto la strada dell’estero, con 1.5 milioni di persone che hanno lasciato il paese dal 2008
Ma non ci sono solamente i rischi del sistema pensionistico, di cui molti studiosi hanno scritto in abbondanza. Ci sono anche i rischi di un sempre più preoccupante incremento da una parte dei giovani italiani che abbandonano il paese, e dall’altra di quelli che perdono le speranze e finiscono a popolare le file dei NEET (not engaged in education, employment or training), ovvero quelli che non hanno un lavoro, non lo cercano, e nemmeno tentano di ottenere qualifiche migliori di quelle che già posseggono. Quasi il 10% degli Italiani ha scelto la strada dell’estero, con 1.5 milioni di persone che hanno lasciato il paese dal 2008. In Sicilia, Campania e Puglia quasi un giovane su tre non ha un lavoro, non lo cerca e non studia.
In un paese così, parlare di produttività, di ricerca, e di intelligenza artificiale è sempre più complicato. Nel dibattito politico che si appiattisce su temi marginali di breve termine, è pressoché impossibile avviare un discorso di ampio respiro. In un paese interessato alle pensioni, come si può parlare di digital economy e di skill mismatch? L’avanzamento digitale offre opportunità uniche, che però bisogna saper catturare e gestire. Dall’altra parte, il crescente divario sociale è alimentato anche da una scarsa innovazione nell’istruzione e nel mercato del lavoro, che rendono impossibile approfittare delle occasioni date dall’interconnessione. La globalizzazione ci spaventa, perché non siamo pronti ad accoglierla. Le battaglie del Paese diventano battaglie perse in partenza, quando ci si ostina a voler tenere in vita distretti industriali che non hanno futuro, almeno in Europa. Perché a meno che l’Italia non scelga di tornare all’autarchia (e ça va sans dire che sarebbe la rovina), allora non sarà più possibile continuare con vecchi modelli di industria e di business. Nell’età del management globale, i nostri capi azienda hanno poco più di 11 anni di studio a testa. Nell’età della ricerca applicata, il nostro numero di laureati è tra i più bassi in Europa, senza contare che più del 50% degli studenti universitari o non riesce a completare una laurea triennale in tre anni oppure getta la spugna, e finisce a fare il NEET. Dopo tutto, non è solo una questione economica: è anche, e soprattutto, una questione di benessere sociale. Come si fa a parlare di mobilità sostenibile e intelligente, in un paese dove crollano ponti e deragliano treni? Come si può parlare di ambiente, quando si impediscono gasdotti e collegamenti ferroviari che contribuirebbero alla riduzione dell’effetto serra?
Come si fa a parlare di mobilità sostenibile e intelligente, in un paese dove crollano ponti e deragliano treni?
La scelta è tra breve e lungo termine. Tra soluzioni spicciole e raffazzonate e progetti concreti, lungimiranti. Allora è il momento di cominciare a guardare a un orizzonte temporale un po’ più lungo di quanto siamo abituati a fare e di prendere atto che i limiti al debito pubblico non sono una gogna, ma una garanzia. Che investire nei giovani è meglio che andare in pensione qualche anno prima, perché altrimenti, di questo passo, i giovani di oggi non andranno mai in pensione. È meglio dismettere industrie senza futuro e aprire all’innovazione. E questo significa prima di tutto assumersi delle responsabilità. Ma nel frattempo resta la sensazione che l’Italia sia sempre lì, a cercare di smussare i numeri dei bilanci o ad invocare la flessibilità, anziché darsi da fare a livello strutturale per risanare il paese. Per adesso, il governo sostiene di avere sconfitto la povertà. Ci manca solo che per combattere la disoccupazione incominci ad incoraggiare l’essere NEET.
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