A proposito di Woody
La vita, gli amori, i film e le accuse di molestie nell'autobiografia di Woody Allen
«Non vorrei mai far parte di un club che contasse tra i suoi membri uno come me», dice Alvy Singer/Woody Allen in Io e Annie (1977). Ho provato anch’io a far mia questa battuta: me la sono imposta come una regola. Ma dall’adolescenza in poi sono divenuto parte dei fan di Woody Allen, che non un è club esclusivo con delle tessere da prendere, intendiamoci. Però rimanda sempre a un gruppo di persone, e la cosa non mi è mai andata giù: perciò ho sempre preferito ritenermi un semplice estimatore, talvolta un modestissimo discepolo. La parola fan, oltreché a me, sarebbe in primis dispiaciuta allo stesso Allen, quantomeno in un mondo di fantasia dove lui s’interessa a certe scemenze.
Davanti alla notizia dell’imminente uscita della sua autobiografia, ho provato al principio un po’ di scetticismo. Avendo in casa poco più di una decina di libri con sopra il nome «Woody Allen» mi sono chiesto: a che scopo? Sicuro che il quasi-ottantacinquenne newyorkese non mi avrebbe detto nulla di nuovo. La voglia di stringere il libro tra le mani si è accesa, ahimè, con la grottesca vicenda editoriale: la Hachette avrebbe dovuto dare alle stampe il libro ma ha annullato la pubblicazione in seguito alle solite polemiche sul suo autore. Persino i lavoratori della casa editrice si sono rifiutati di lavorare al testo, un po’ come si trattasse dell’autobiografia di Charles Manson o di George W. Bush.
Per fortuna, il libro è stato comunque pubblicato da Arcade Publishing e in Italia Elisabetta Sgarbi non si è fatta sfuggire la ghiotta occasione per La Nave di Teseo: si è accaparrata il libro con orgoglio com’era avvenuto prima e durante la sua direzione di Bompiani, da sempre l’editore italiano dei testi di Allen. Tra questi vanno ricordati i celebri Gettin Even (1971), Without Feathers (1975) e Side Effects (1980), rispettivamente usciti in Italia nel 1973, 1976 e 1981 coi titoli Saperla lunga, Citarsi addosso e Effetti collaterali – il primo con un’introduzione di Umberto Eco. Le traduzioni erano parziali e censuranti, e infatti nel 2004 le prose furono date in mano a Daniele Luttazzi, che rese loro un pregevole servizio a partire dai titoli, divenuti Rivincite e Senza piume (Effetti collaterali restò invariato). Allen ha scritto poi Pura anarchia, uscito nel 2007, e nel mentre hanno visto la luce decine di volumi su di lui, compresi libri-intervista come Conversazioni su di me e tutto il resto di Eric Lax e, in Italia, Woody Allen: quarant’anni di cinema di Pier Maria Bocchi, che propone una originale analisi della sua filmografia. È stata un’altra felice penna cinematografica, Alberto Pezzotta, a tradurre A proposito di niente (La Nave di Teseo, 2020), il cui formato elettronico ha riscosso da subito un notevole successo. Ma io, da vero fissato, ho atteso stoicamente il cartaceo, in libreria dal 14 maggio.
Dalle prime righe non ho potuto fare a meno di plaudire al lavoro di Pezzotta nel trasporre in italiano la voce di Woody in quest’autobiografia consigliabile sia ai conoscitori enciclopedici sia ai novizi: i primi la ameranno e aggiungeranno informazioni e aneddoti al loro già ricco bagaglio; ai secondi potrebbe invece tornare utile per orientarsi nella mente e nella vita di un genio che non si ritiene tale. Lui dice solo di essere piuttosto bravo a far ridere, senza tuttavia considerarsi un regista di spessore: «Il mio rimpianto più grande? Che ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro».
Il mio rimpianto più grande? Che ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro
In A proposito di niente, Woody Allen si racconta come chiunque si aspetterebbe, ossia in modo brillante, inanellando battute tipiche del suo repertorio almeno ogni due paragrafi, nonché con un’umiltà assai rara da trovare in campo artistico. Queste quattrocento pagine potrebbero essere divise in due macro-capitoli: uno in cui vengono ripercorsi gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza, degli esordi nella comicità e poi nel cinema; e un altro, com’era inevitabile, in cui l’autore si dilunga sulle accuse di molestie togliendosi più sassolini dalle scarpe. E lo fa, come vedremo, nel migliore dei modi – forse l’unico possibile.
Allan Stewart Königsberg, figlio di due ebrei di Brooklyn in parte simili a quelli incontrati in Io e Annie, cresce in un ambiente felice dimostrandosi già da piccolo più dotato e intelligente della media; ciononostante, i suoi voti scolastici non saranno mai troppo alti. È tutto all’infuori dell’immagine del secchione o dell’intellettuale con cui lo conosciamo adesso. Negli anni della scuola è interessato soprattutto al cinema hollywoodiano, allo sport (in cui eccelle, specie nel baseball), alla magia, all’illusionismo, a barare a poker e, più tardi, alla musica jazz. Tutte passioni, carte escluse, che lo accompagneranno fino a oggi e che ritroveremo nei suoi film, come avverrà per il sesso, la religione, la psicanalisti e la morte; di quest’ultima, Woody prende coscienza sin dalla tenera età.
«Non ci sono stati traumi nella mia vita; non è successo niente per trasformarmi da bimbo lentigginoso e sorridente a giovinastro eternamente insoddisfatto. La mia ipotesi è che all’età di cinque anni divenni consapevole del concetto di mortalità, e pensai che non era mica nei patti. Qualcuno mi ha avvertito che non era previsto che fossi eterno? Se non vi spiace, rivoglio indietro i soldi. Crescendo mi divenne più chiara non solo la finitudine dell’esistenza, ma anche la sua assenza di senso. E incocciai contro la stessa domanda che angustiava il noto principe danese: perché soffrire oltraggi di fortuna, sassi e dardi, quando basta che mi bagni il naso e lo metta nella presa della corrente per non avere più a che fare con angoscia, crepacuore e il pollo lesso di mia madre?»
Sedicenne scriverà le sue prime battute per alcune riviste e poi per comici spesso più navigati di lui, distinguendosi come principale autore della ABC. È qui che Allan Stewart Königsberg diventa Woody Allen, a sua volta pseudonimo dell’attuale nome anagrafico Heywood Allen. A vent’anni sposa a Hollywood la studentessa di filosofia Harlene Susan Rosen, che lo introdurrà alla lettura dei classici del pensiero e con la quale vivrà una turbolenta relazione finita col divorzio dopo sei anni di unione. In questa fase ha modo di conoscere alcune delle persone-chiave per il suo futuro: tra loro, il commediografo Neil Simon, Jack Rollins e Charles Joffe, suoi nuovi agenti e poi produttori di tutti i suoi film, e Marshall Brickman, con cui sceneggerà Il dormiglione (1973), Io e Annie (1977), Manhattan (1979) e Misterioso omicidio a Manhattan (1993).
Nei primi anni Sessanta raggiunge la fama televisiva e di stand-up comedian, scrive racconti umoristici per il New Yorker e passa dal cabaret al teatro con la pièce Don't Drink The Water
La fama televisiva andrà di pari passo a quella di stand-up comedian e, per quanto il nostro narratore tenda ad affermare il contrario, la sua cultura si amplia assieme alle sue ambizioni: scrive racconti umoristici per il New Yorker e intanto Tennessee Williams e Arthur Miller divengono suoi numi tutelari al pari di Groucho Marx e Bob Hope. Il passaggio dal cabaret al teatro sarà quasi naturale: risale al 1966 il successo di Don’t Drink The Water, testo riadattato poi per il piccolo schermo nel 1994.
Nello stesso periodo Woody muove i primi passi anche nel cinema: dapprima come attore-caratterista in Ciao Pussycat (1965) diretto da Clive Donner alla presenza di un cast di star (Peter Sellers, Ursula Andress, Peter O’Toole), del quale firma anche la sceneggiatura; l’anno successivo come regista con Che fai, rubi?, ovvero il ri-doppiaggio e rimontaggio in chiave comica di un film giapponese, a sua volta parodia di 007. I risultati non lo convincono né nel primo né nel secondo caso, e al riguardo scrive:
«Quando non accettai di cambiare alcune battute, il produttore prese qualcun altro perché lo facesse. Il risultato non fu solo privo di interesse, ma proprio stupido. Il mio contributo fu mediocre, e le battute aggiunte da non so chi erano imbarazzanti. […] vedere associato il mio nome a un film come questo e a Ciao Pussycat era umiliante, e giurai che non avrei più fatto un film se non avessi avuto il totale controllo. Da allora è sempre stato così».
Si può dire con certezza che il cinema di Woody Allen come lo conosciamo prende il via dopo queste esperienze negative. Nel 1969 sarà la volta del suo vero esordio, Prendi i soldi e scappa, pensato interamente come finto-documentario: l’idea sarà realizzata solo in parte e concretizzata anni dopo con Zelig (1983). Il film fu scritto a quattro mani con l’amico ed ex-compagno di baseball Mickey Rose, con Woody come protagonista al fianco di Janet Margolin (poi anche in Io e Annie); presente in una piccola parte anche Louise Lasser, seconda moglie di Allen da cui si separerà quello stesso anno dopo tre di matrimonio: ciò però non impedirà a Lasser di apparire anche in Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971) e in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972).
Dalle disavventure del ladruncolo Virgil Starkwell protagonista di Prendi i soldi e scappa il ritmo del Woody Allen regista, attore e sceneggiatore sarà all’incirca quello di un film all’anno, con una filmografia che ad oggi tocca i cinquanta lungometraggi. In A proposito di niente si parla di questi film e vengono descritti i rapporti – quasi sempre cordiali quando non splendidi – coi colleghi, i tecnici e gli attori. Se però bisogna citare una persona su tutte, quella è Diane Keaton, conosciuta nel corso dei provini per il ruolo femminile della pièce teatrale Provaci ancora Sam (portata sullo schermo da Herbert Ross nel ’72 sempre su sceneggiatura di Allen con lui, la stessa Keaton e l’amico Tony Roberts nei ruoli principali): «se Huckleberry Finn fosse stato una bella ragazza, sarebbe stato così», scrive del primo impatto con colei che sarebbe divenuta sua compagna di vita per breve tempo e poi migliore amica, una consigliera alla quale domandare pareri in ambito cinematografico e non solo. Con lei girerà ben otto pellicole, tra cui due dei suoi capolavori: Io e Annie (1977) e Manhattan (1979). Per il primo Diane Keaton vincerà l’Oscar per la miglior attrice, mentre Allen quello per la miglior sceneggiatura e per la regia. Io e Annie si guadagnerà pure la statuetta per il miglior film, divenendo il più iconico dei suoi film e facendo della Annie Hall di Keaton (all’anagrafe Hall come il suo personaggio) uno degli archetipi per eccellenza dell’immaginario alleniano.
Nella vita del regista piomberà, in seguito al successo e ad alcuni dei suoi lavori migliori, un’altra famosa attrice: Mia Farrow. Il racconto della relazione con lei, all’interno del libro, marca l’ideale confine tra il primo e il secondo macro-capitolo. Allen non si sottrae al ricordo dell’attrazione, dell’infatuamento e dell’amore provati per Farrow sin dagli inizi del loro rapporto, un rapporto con le sue peculiarità – i due non vivranno mai insieme – in cui il regista, accecato dal sentimento, scrive di non aver mai dato peso ai problemi e alle contraddizioni insite nella personalità e nella vita di lei, a cominciare dal morboso rapporto con i figli, in tutto già sette tra naturali e adottati.
Mia Farrow reciterà col compagno in undici film, quasi sempre in ruoli di primo piano: tra i tanti Hannah e le sue sorelle (1986), Broadway Danny Rose (1984), Radio Days (1987) e Crimini e misfatti (1989). Poi, nei primi anni Novanta, la storia che in tanti conoscono e in molti fanno finta di conoscere. In A proposito di niente Woody Allen fornisce per la prima volta la sua versione dei fatti riguardo all’accusa di molestie ai danni dell’allora settenne Dylan, a cui l’accusato dice di aver sempre voluto bene come a una figlia, benché non sua. Lo stesso dice di Ronan, suo figlio naturale (anche se Mia Farrow afferma esser figlio di Frank Sinatra, che lei ancora frequentava) e da sempre dalla parte della madre oltre che primattore nella vicenda Me too, e di Moses, strenuo difensore del padre e quattordicenne all’epoca dei fatti – ma a quanto pare nessuno tiene molto conto delle sue parole.
Woody Allen e Soon-Yi Previn s’innamorano nel giro di poco, e la madre verrà a scoprirlo nel peggiore dei modi: attraverso delle foto osé di lei scattate per gioco con una Polaroid a casa di Allen. Da lì, le accuse di molestie
Tutto comincia con la scoperta da parte di Mia Farrow della relazione di lui con la figlia adottiva Soon-Yi Previn (adottata da Farrow all’epoca del matrimonio col direttore d’orchestra e musicista André Previn), attuale moglie di Allen. Il regista dice di aver avuto un rapporto freddo quando questa era bambina; cosa confermata da Soon-Yi, che non l’aveva mai potuto sopportare sin dalle sue prime visite a casa Farrow. Tuttavia, quando un giorno viene proposto a Woody di portare con sé la ventenne Soon-Yi a una partita di basket lui accetta, ed è lì che fa davvero la sua conoscenza. I due s’innamorano nel giro di poco, e la madre verrà a scoprirlo nel peggiore dei modi: attraverso delle foto osé di lei scattate per gioco con una Polaroid a casa di Allen. Da lì, le accuse di molestie: per l’autore, che ammette di non aver compiuto l’azione più elegante del mondo, nientemeno che una vendetta nei suoi confronti.
Quello che colpisce leggendo il libro non è la “versione di Woody Allen”, perché l’autore non si arrampica sugli specchi, non si dichiara innocente e non dice a chi legge di credergli sulla parola; o meglio lo fa perché pare possa permetterselo, vista la documentazione riportata all’interno del testo. Oltre alle testimonianze di Moses e a quelle della moglie Soon-Yi, che raccontano i maltrattamenti e le violenze psicologiche subite dalla madre adottiva, Allen cita i verbali dei processi, i resoconti degli investigatori privati, le perizie psichiatriche, il suo risultato positivo al test della macchina della verità (a cui Mia Farrow rifiutò di sottoporsi), testimonianze di psicologi infantili e di persone che lavoravano in casa della ex-compagna. E l’elenco potrebbe proseguire.
Il ritratto di Mia Farrow che ne viene fuori è poco edificante. Ma non è neanche questo il problema, giacché per anni una fetta consistente dell’opinione pubblica americana ha creduto a lei, al figlio Ronan e a Dylan, per giudici e psichiatri vittima non di violenze sessuali ma di lavaggio del cervello, ignorando le sentenze processuali e le prove che avvalorano l’innocenza di Allen, agli occhi di molti ancora un pedofilo, un predatore sessuale alla stregua di Bill Cosby o Harvey Weinstein.
Questa è stata una delle tante contraddizioni della sacrosanta battaglia del Me too: considerare le accuse come verità e sostituire le dichiarazioni delle (presunte) vittime allo stato di diritto, senza contare i linciaggi mediatici subiti da Allen o da altri come Louis C.K., menzionato nel libro sia come attore di Blue Jasmine (2013) sia come collaboratore di un film poi mai andato in porto e come persona colpita dalla sua stessa sorte.
Così com’è stata bloccata la distribuzione di Un giorno di pioggia a New York (2019), poi uscito in tutto il mondo fuorché negli Usa, patria in cui Woody non è invero mai stato troppo profeta, anche il film di Louis C.K. I Love You Daddy (2017) rimane ancora inedito per le solite ragioni. E qui, a prescindere dalle idee che si hanno sulla condotta degli artisti, risulta ingiusto privare il mondo di un’opera d’arte, a maggior ragione di un lavoro collettivo qual è un film: non prodotti del solo regista, bensì di centinaia e alle volte migliaia di persone.
Cosa resta da dire a proposito di Woody? Per me molto: ma io faccio parte del mio club, l’ho già detto. Resta più che altro da suggerire ai lettori interessati quest’autobiografia per godere della compagnia di un uomo capace di far ridere anche quando parla delle sue sciagure. Qui si parla di cinema, tanto a stelle e strisce quanto di Bergman, Fellini e De Sica, si spazia nella letteratura, nella filosofia, nel teatro e nella musica, specie nel clarinetto col quale ancora Woody continua a dilettarsi. Leggerete di un uomo che odia scorrazzare nella natura e ama la città – su tutte New York, ma anche Parigi, Londra e Venezia; leggerete di uno che invitava un amico a cena a casa sua solo per farsi cambiare il nastro della macchina da scrivere, il solito nastro che ancora non ha imparato a sostituire – adesso se ne occupa la moglie Soon-Yi, per la quale spende solo commoventi parole d’amore e ammirazione. Ciononostante, c’è tutt’oggi chi pensa sia sua figlia, anche se è pur vero, scrive lui, che c’è ancora chi crede che Obama non sia americano.
C’è tutt’oggi chi pensa che Soon-Yi Previn sia sua figlia, anche se è pur vero, scrive lui, che c’è ancora chi crede che Obama non sia americano
Non c’è fango che fermi il genio di Woody Allen. Intanto, qui nel mio piccolo club si attende con ansia l’uscita del suo prossimo film girato in Spagna con protagonista il grande Wallace Shawn. Ci saranno di sicuro altri inutili fiumi di polemiche, dinanzi alle quali Woody sarà il primo ad alzare le spalle; e io potrò fare lo stesso pensando a un film che non sarà manco lontanamente un capolavoro e che nel contempo non potrà mai essere brutto quanto To Rome With Love. Sono comunque convinto che il buon vecchio Woody mi strapperà per l’ennesima volta qualche amaro sorriso e che troverò qualcosa da ricordare anche in quest’occasione, sebbene il suo autore a più riprese sostenga un totale disinteresse per la sua permanenza nella memoria collettiva. Qualcosa però mi dice che non sia del tutto così. E se anche lo fosse, gli alleniani di tutto il mondo saranno sempre uniti nel suo ricordo, purché rigorosamente in club separati.
Commenta